Mi sento di poter dire con buona certezza che la sensazione di “sentirsi fuori posto” descritta nei giorni scorsi da Flaviano Zandonai non è solo un disagio individuale, ma il tratto distintivo di un’intera epoca e di qualche buona generazione. L’incertezza che attraversa ogni ambito della nostra esistenza – dall’economia alla tecnologia, dalla geopolitica all’ecologia – non è più un’esperienza occasionale ma la nuova normalità con cui siamo chiamati a convivere.
Il filosofo Byung-Chul Han la chiama “società della stanchezza”: la condizione in cui l’individuo – sottoposto a pressioni continue – finisce per esaurire le proprie energie psichiche. L’attivista e scrittrice Astra Taylor parla di “capitalismo dell’insicurezza”, intendendolo come quello stato delle cose (non certo naturale, ma imposto) che ci impedisce di indirizzare le energie nel futuro perché ci tiene ostaggio di un presente dominato dalla paura.
Basta guardarsi intorno per comprendere quanto sia puntuale questa diagnosi. Le guerre dispiegano il loro tappeto di morte quotidiano. Le migrazioni di massa vengono “gestite” attraverso violenze che feriscono (o almeno, dovrebbero continuare a farlo) le nostre coscienze. L’innovazione tecnologica avanza con la sua pervasività distruttiva, che surclassa per il momento le opportunità che offre. Le fratture sociali si allargano, investendo anche quelle classi che credevano – sbagliando, illuse da mirabolanti promesse di progresso infinito – di essere al riparo dall’ingiustizia strutturale del modello economico dominante nell’ultimo quarantennio.
La quantità e varietà di dolore che ci circonda fa sì che non possiamo parlare solo di una generica scomodità nello stare al Mondo, ma di una potenziale – e sempre più prossima – invivibilità dell’unico pianeta a nostra disposizione.
Riconoscersi nel dolore dell’Altro
Di fronte a un tale scenario, una domanda diventa cruciale: cosa dobbiamo e possiamo fare di tutto questo dolore? Abbiamo ancora la capacità di reagire o ne siamo completamente assuefatti?
È utile rileggere Susan Sontag e il suo “Davanti al dolore dell’altro” per trovare qualche spunto. In un tempo in cui la violenza è totalmente esposta – dal genocidio di Gaza agli eventi climatici estremi, dal moltiplicarsi di atti politici votati alla sopraffazione dell’Altro – ci possiamo muovere tra due poli: la difesa della nostra individualità egocentrica o il tentativo di farci carico del benessere di un’intera comunità, affaticata e in debito di speranza.
Sontag sostiene una verità tanto semplice quanto profonda: “Nessuno può pensare e al tempo stesso colpire un altro essere vivente”. In questa frase troviamo la chiave di tutto: la centralità del pensiero.
L’Occidente senza pensiero
Lo storico Aldo Schiavone nel suo ultimo lavoro – “Occidente senza pensiero”, edito da Il Mulino – accusa la nostra parte di Mondo di aver smesso di interrogarsi e di costruire pensiero proprio nel momento in cui le trasformazioni in atto ci restituiscono effetti di profondità e rapidità tali da far impallidire le trasformazioni avvenute nel secolo precedente, certo non avaro di cambiamenti e conflitti.
Paradossalmente quando avremmo più bisogno di analisi, studio ed elaborazione di idee – in collaborazione e non in competizione con altre culture, guardando tanto a sud quanto a est del planisfero terrestre – ci ritroviamo invece intellettualmente impreparati, ciechi di fronte alla complessità di cui dovremmo occuparci. Condannati a rimanere congelati in un presente privo di qualsiasi slancio, nostalgici di un’età dell’oro che non è mai esistita, alla ricerca di nemici alle porte da additare per evitare di prendere in considerazione tanto il nostro privilegio quanto la nostra inadeguatezza.
Oltre il vicolo cieco: tempo e immaginazione
Di fronte a questo pericolosissimo vicolo cieco possono venirci in soccorso due prospettive complementari. La prima, che trova in Georges Canguilhem uno dei suoi interpreti più lucidi, ci invita a rivedere la linearità del tempo che viviamo. Il filosofo della scienza francese ci ha insegnato che il rapporto tra passato, presente e futuro non è una semplice successione cronologica. Dopo il passato – che ci serve per capire da dove veniamo, cui facciamo riferimento per dar vita alla nostra memoria collettiva – c’è il futuro, e da questa tensione verso ciò che ci è sconosciuto deve derivare il nostro modo di stare in maniera generativa nel presente.
La seconda prospettiva trova in Jacques Lacan e Cornelius Castoriadis i riferimenti teorici cui guardare. Lacan ci ha mostrato come “di fronte al reale che si manifesta come impossibile” – come definire altrimenti questo tempo così frustrante? – l’unica via d’uscita stia nel recuperare la capacità di immaginare oltre i confini del contesto dato. Castoriadis completa il ragionamento spiegandoci che l’immaginazione non è fuga dalla realtà, ma la facoltà umana di creare nuove forme di vita sociale, di intuire e di conseguenza dar corpo a ciò che ancora non c’è, all’inedito.
Non si tratta qui di facile ottimismo. Si tratta di recuperare quella capacità propriamente umana di immaginare alternative al presente lì dove questo diventa opprimente per tropp*, di costruire ponti verso futuri possibili anche quando tutto sembra privo di sbocco.
La politica dell’immaginazione
Che la politica si debba riattrezzare a questo esercizio di visione sembra purtroppo essere un’urgenza sentita ancora da poch*. Eppure è proprio qui che potrebbe risiedere la chiave per uscire dalla paralisi del presente cui siamo testimoni.
Il dolore della nostra epoca non va in questo senso negato o sottovalutato. Va attraversato invece con gli strumenti del pensiero collettivo, quegli stessi strumenti che ci hanno permesso anche nei momenti più bui della storia di trovare strade nuove.
Di salvarci insieme, se siamo ancora in grado di sentirne l’esigenza.