Fermarsi altrove

Autore

È arrivato il momento di ridiventare Sapiens… per chi ha ancora gambe nel cervello, l’unica è camminare laterale per fermarsi altrove

Restare, partire, perdersi. La nostalgia li lega. Una nostalgia che scivola spesso nella negazione dell’adesso-qui, nell’escapismo fantastico o lisergico, nell’autoconforto onanista. Farne poetiche, scriverci libri intelligenti, radicarsi in un’estetica dello spazio ridotto che fa il paio con le estetiche esauste dell’interiorità, è quanto di più ordinario (e tossico) possa accadere nell’epoca dei sentimenti in saldo. È una specie di resa, di rinuncia a quella complessità che unica, che ultima, potrebbe salvarci dall’immobilità ebete che ci attanaglia di fronte al collasso. Non ci sono chiacchiere a margine dell’immaginario che possano additare delle vie di uscita. Non ci sono analisi dell’apocalisse che regalino istruzioni per l’uso su come saltare la faglia. Ci vogliono degli antidoti, invece, dei meditabili, dei paradigmi portatili da accendere ogni volta che stanchi o spaventati ci spegniamo, perché le filosofie del rallentare, della pausa, della sosta, del mettere radici, dello stare, dell’essere-contro-il-fare hanno quasi sempre dentro di sé il virus della delega, quel regalare la soluzione (e il controllo) di un problema a qualcun altro, quando invece si sarebbe potuto, quando sarebbe stato meglio farsene carico, e dignitoso provarci. L’Antropocene non è solo un evento materiale e mentale, fattuale e immaginale, ma è la verticalizzazione della coscienza, nel senso che per sapere davvero che cosa accade, per intercettare l’unicità dei tempi e prepararsi ai crolli imminenti, non si può più negare o delegare, non c’è più tempo lineare in cui fermarsi. È arrivato il momento invece di ridiventare Sapiens, di riattivare quei motori di evoluzione che in 150.000 anni ci hanno reso chi siamo: un immaginario preverbale da consegnare intatto alla parola, un nomadismo ostinatamente centrato sull’altrove, una ricerca venatoria e traceologica del sacro. Se arrivano/ritornano stagioni oscure, reflussi di ignoranza, smagliature cognitive generalizzate, fermarsi non è la soluzione: l’isola, la torre e il bunker non sono la ritirata che serve. Le comunità di sopravvivenza che si dovranno, che avremmo già dovuto attivare, potranno invece funzionare non perché saranno dislocate in qualche margine atemporale, in clandestinità, ma perché si muoveranno al proprio ritmo in posizione laterale, puntando a un altrove in cui la dittatura dell’io stanziale non può prevalere. Come un viandante alpino della prima età dei metalli, dovremmo portare addosso un microcosmo di materiali e strumenti per fare bricolage cognitivo in totale autonomia, dovremmo farci abitare il cervello da immagini di luoghi e bestie e amplessi tanto più feconde quanto più mute alla banalità di un romanzo, dovremmo imparare a seguire tracce di sacro come un cacciatore terrestre, inebriato di territà, nomade inesausto sull’unica Terra che resta. Come un pater familias terrorizzato dalla calata di Alarico dovremmo approntare un ripostiglio di tesori, e invece di metterci dentro monete e statuine di lari dovremmo depositarci un flauto, un coltello e un decalogo del mutuo appoggio per le bande dei ragazzini a venire. Non c’è molto altro da fare. I libri fanno silenzio, oggi. Sono macchine senza autista abbandonate in un parcheggio illimitato. Continuano a essere prodotte per inerzia ma gli umani per cui erano fatte si sono appena estinti, e i motori non c’è nessuno ad accenderli. Il silenzio delle biblioteche non è mai stato così violento, così colpevole. E allora, per chi ha ancora gambe nel cervello, l’unica è camminare laterale per fermarsi altrove. Svegliarsi al mattino, raschiare un po’ di fungo dei tronchi sui trucioli secchi, battere la selce contro la marcassite alcune volte, soffiare sulla favilla, soffiare, con gli occhi che lacrimano per il fumo guardare i rami in arabesco sopra di sé e immaginare un qualche dio, posare sulla piccola fiamma qualcosa che cuocerà e che darà consistenza ai muscoli di camminatore-camminatrice nei boschi, e dopo, dopo le cose utili e necessarie, ci alzeremo, annuseremo l’aria, seguiremo un animale invisibile fino ai bordi del Tempo.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Ultimi articoli

Antonino Pennisi, L’ottava solitudine. Il cervello e il lato oscuro del linguaggio, Il Mulino, Bologna 2024

Ugo Morelli: Se c’è un’esperienza che ognuno pensa di poter definire abbastanza facilmente, quella è la solitudine. Ma è poi così vero...

Il blocco dello scrittore, ma non solo…

Ore 5.00 la sveglia suona come tutte le mattine dal lunedì al venerdì, non sbaglia un colpo, finché non glielo permetto io.

Ridotti al silenzio dalle nostre chiacchiere?

«La parola è un sintomo di affetto E il silenzio un altro» Emily Dickinson, Silenzi,UEF, 1990

Scrivere: rivoluzionario più che disubbidiente

La sala è la stessa e il protagonista è il medesimo che, nel frattempo, non ha perso né fama, né carisma. Eppure,...

Risposta alla domanda: “Quale il senso di parlare a questa umanità distratta, disgregata ed in crisi che non perde occasione di manifestarsi tale ogni...

Al di là di ogni pubblica confessione, che pure qui può leggersi in controluce, lo scrivere oggi non è più possibile. La...