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Il “nuovo” che manca al lavoro nell’Italia del XXI secolo

Autore

Alessandro Rosina
Docente universitario e saggista. Studia le trasformazioni demografiche, i mutamenti sociali, la diffusione di comportamenti innovativi. Professore ordinario di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, è anche Direttore del centro di ricerca LSA (Laboratorio di statistica applicata alle decisioni economico aziendali).

Nessuno sa bene come sarà il lavoro di domani, ma sappiamo che tutto ciò che agisce in questa direzione aiuta il nuovo a trovare la sua miglior collocazione 

Il lavoro non è più quello di un tempo: è tempo di un lavoro nuovo. “Nuovo” da intendere nella combinazione di tre aspetti: la qualità da aggiungere al lavoro; la capacità di produrre benessere in modo nuovo; lo spazio strategico che le nuove generazioni devono poter conquistare. 

Ci troviamo oggi con due crisi diverse intrecciate tra di loro: il lavoro in crisi (misurato soprattutto nella dimensione quantitativa) e la crisi del lavoro (che rinvia alla dimensione qualitativa, non solo in termini di modalità ma anche di significato). La prima crisi è legata ai rischi del lavoro che manca, la seconda alle opportunità del lavoro che cambia.  

Il dibattito e l’attenzione politica sono concentrati sulla crisi del lavoro e sugli aspetti quantitativi (ovvero su quanto il presente ha in meno rispetto al passato) ma non potremmo mai affrontarla davvero in modo efficace se non assieme alla questione del lavoro in crisi (e quindi su come consentire al futuro di aggiungere rispetto al presente). 

Alla base del lavoro in crisi c’è la crisi del modello di sviluppo che ha caratterizzato la crescita e le modalità di partecipazione alla crescita (produzione e consumo) nel XX secolo. Tale secolo ha avuto come stella polare la crescita della quantità. Esiste oramai una convinzione diffusa che questo modello, che ha comunque consentito di migliorare le condizioni di vita di gran parte della popolazione, non sia più sostenibile. In particolare, esiste una crescente consapevolezza che il benessere di una comunità sia sempre meno misurabile in termini di prodotto interno lordo, mentre assumono sempre più importanza altre dimensioni legate alla qualità della vita, alle relazioni interpersonali, all’ecosistema.  

Non si tratta quindi di rinunciare a crescere, ma di legare la crescita a un concetto di benessere più ampio, che metta la qualità davanti alla quantità, sul versante dei consumi, degli anni di vita, dell’ambiente. Inoltre con crescente attenzione non solo a ridurre le diseguaglianze sociali ma a migliorare i meccanismi di partecipazione e il benessere relazionale (tramite condivisione di esperienze, sviluppo dell’intelligenze emotiva, combinazione tra competenze tecniche e sociali) 

Così come, nel contesto lavorativo, il benessere dei dipendenti e il loro legame con l’azienda va sempre più oltre lo stipendio e acquistano sempre più importanza la possibilità di armonizzare positivamente l’impegno professionale con gli altri ambiti di vita, ma anche potersi identificare con i valori dell’azienda e portare al suo interno le proprie sensibilità.  

Il nuovo lavoro deve quindi dimostrarsi in grado sia di migliorare il benessere nel processo in sé dell’attività lavorativa, sia nel prodotto di tale attività (le prime due accezioni del “nuovo”). Benessere nel fare (legato al senso del proprio agire) e nel riconoscersi in quello che si fa (legato al valore che si contribuisce a generare). 

Morelli scrive giustamente nel suo articolo che: “Il lavoro è tuttora considerato e trattato, implicitamente e da tutti i soggetti, secondo categorie e pratiche orientate al passato”. Se vogliamo, allora, capire come sta cambiando il senso dato al lavoro è necessario cercarlo in ciò che differenzia l’atteggiamento delle nuove generazioni rispetto alle precedenti. Al contrario, più che le altre economie mature avanzate, l’Italia si è ostinata a forzare i giovani ad adattarsi a un lavoro che non funziona più e nel quale faticano a riconoscersi, con quantità e qualità che di conseguenza risultano sempre più avvitate verso il basso. 

Arriviamo, così, alla terza accezione di “nuovo” nel lavoro. Nelle nuove generazioni vita familiare e lavoro sono sempre meno intese come sfere separate e in competizione. I dati del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo evidenziano come il desiderio di fondo della Generazione Zeta non sia tanto quello di porre confini al lavoro per dare più spazio alla vita libera dal lavoro, ma di contaminare i due territori e soprattutto riempire di vita il lavoro, in termini di passioni e interessi.  

Rispetto all’offerta di lavoro, servono giovani che non si limitino ad essere ben preparati e ad attendere che arrivi l’opportunità giusta, ma siano in grado di cercare le opportunità e magari anche di crearle. Rispetto alla domanda di lavoro, servono imprese che non considerino i giovani come manodopera da impiegare a basso costo e da dismettere facilmente, ma come il carburante principale per alimentare la competitività dell’azienda all’interno dei percorsi più virtuosi di sviluppo sostenibile. Serve, inoltre, la disponibilità a riconoscere il valore aggiunto inatteso che i nuovi entranti possono dare rispetto alle competenze iniziali richieste. Detto in altro modo, le aziende del XXI secolo – qualsiasi sia il settore in cui operano – devono saper evolvere in fabbriche in grado di trasformare la capacità di essere e fare delle nuove generazioni in ricchezza e valore nel mondo in cui vivono.  

Nessuno sa bene come sarà il lavoro di domani, ma sappiamo che tutto ciò che agisce in questa direzione aiuta il nuovo a trovare la sua miglior collocazione. 

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