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Archeologia della macchina al lavoro

Autore

Marco Dotti
Insegna Professioni dell’editoria al Corso di Laurea Magistrale in Comunicazione Professionale dei Media dell’Università di Pavia. Giornalista professionista, si occupa di etica delle nuove professioni e del digitale, con particolare attenzione alle questioni aperte dallo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale (AI). Il suo ultimo libro è “Finis Europae. Welfare, neonazionalismo, corpi intermedi digitali” (Roma, 2017).

Robot al lavoro 

Come chiamare un «operaio artificiale»? «Vorrei chiamarlo labor: così confessava Karel Čapek al fratello Josef. Labor? «Mi sembra – aggiungeva – un po’ troppo libresco». Allora suggerì Josef – pittore di notevole fama che morì in un lager nazista poco prima della fine della guerra – «chiamalo robot». Nacque così la parola robot, dal ceco robota, ovvero: lavoro di fatica, servitù, corveée.  Nelle lingue slave, altre parole derivano da questa radice. Il polacco robotnik significa infatti “lavorare”, ma il russo rab (раб) ha una coloritura semantica più dura: “schiavo”. 

Nel 1921, Karel Čapek introdusse così la parola “robot” nel contesto letterario con R.U.R. Rossum’s Universal Robot, pièce tragicomica sulla fabbricazione di schiavi biochimici e meccanici da parte dello scienziato Rossum (rozum significa “ragione”), sul loro sfruttamento e la loro conseguente rivolta che in pochissimo tempo, man mano andava insediandosi nell’immaginario, andò in scena in mezzo mondo: Praga, Varsavia, New York, Londra, Zurigo, Parigi, Stoccolma, Berlino. 

A poco a poco, gli schiavi immaginati da Čapek prendono sempre più spazio. Liberati gli uomini dalla fatica del lavoro, gli uomini – e questo è il grande monito morale dello scrittore ceco –consegnano a una vita priva di vocazione. 

Abbandonato il lavoro, gli uomini perdono ogni passione: l’otium uccide il negotium in un contesto calibrato unicamente sulla performance. I robot universali, allora, imponendo una loro lotta di classe. si impadroniscono delle emozioni e del mondo dando inizio a una nuova era. La passione e le macchine 

Dovettero passare quarant’anni affinché il primo robot industriale, Unimate, entrasse in fabbrica e inverasse ciò che, nell’immaginario e nelle paure sociali, aveva da tempo un posto stabile: la sostituzione della macchina all’umano. 

Quasi a dimostrare che se una cosa è tecnicamente immaginabile, prima o poi accade, nel 1961, su prototipo realizzato da Joe Engelberge e George Devol, fondatori della Unimation Inc., il braccio meccanico Unimate venne installato negli impianti di montaggio della General Motors in New Jersey

Visti i risultati del braccio meccanico automatizzato, e la sua capacità di velocizzare le operazioni alla catena di montaggio, Crysler e Ford seguirono l’esempio di GM e lo installarono nei loro stabilimenti. 

I robot, confesserà Karel Čapek a un quotidiano inglese, furono la conseguenza di un suo viaggio in tram.  

L’impatto delle tecnologie sulla vita quotidiana gli sembrò rovesciare molti luoghi comuni: «un giorno sono dovuto andare a Praga con un tram di periferia incredibilmente pieno. L’idea che le condizioni moderne abbiano reso gli uomini insensibili alle più semplici comodità della vita mi ha atterrito. Erano ammassati all’interno e sugli scalini del tram non come pecore, ma come macchine. Ho iniziato allora a pensare agli uomini non come individui, ma come macchine, e per tutto il viaggio ho cercato una parola capace di indicare un uomo in grado di lavorare ma non più di pensare. Quest’idea è espressa dalla parola robot». 

Azione, reazione… emozione 

Fin dagli inizi, la parola “robot” ha saputo condensare attorno a sé, come un catalizzatore, una serie di antichissime fobie. Su tutte: la questione dell’automa (libertà), il tema del sosia (identità), la paura della sostituzione tramite un doppio di sé (alterità). Il robot di Čapek non è, però, un mero artefatto meccanico: è, piuttosto, una creatura artificiale. 

La distanza fra uomo e robot, in questo senso, viene ridotta al minimo. Il robot diventa così una sorta di uomo semplificato, ridotto dalla tecnologia ai suoi minimi termini: azione e reazione. Solo sul finire della pièce, a questi minimi termini, si aggiunge un «assoluto»: l’emozione. Ed è quando vengono dotati di emozione che i robot universali di Čapek iniziano la loro rivolta contro l’umano.  

Non è tanto l’elemento del conflitto uomo-macchina a risultare, oggi, rilevante nella riflessione di Čapek quanto un tema lasciato spesso sullo sfondo, rispetto alla più eclatante “war of the worlds”: la loro compenetrazione. 

Per questo, le preoccupazioni che percorrono l’opera di Čapek non riguardano unicamente alcune variabili, inquadrate nella questione occupazionale («i robot ci ruberanno il lavoro?» (saremmo ancora in una concezione meccanica della relazione uomo-macchina), ma investono l’intero ordine sociale e, attraverso la questione-lavoro, toccano una sorta di condizione tecno-umana.  

La nostra paura delle macchine al lavoro rivela non tanto e non solo timori sociali in merito all’occupazione, ma il nodo irrisolto del nostro rapporto ambivalente con tecnica e tecnologia.  Rapporto ambivalente non a causa della presenza di robot, ma per la nostra incapacità di inquadrare quella presenza in un complessivo orizzonte di senso. Le paure e le incertezze nascono da qui.  Sono paure antropotecniche, potremmo dire, ricorrendo alle parole del filosofo tedesco Peter Sloterdijk, perché riguardano la nostra incertezza sulle condizioni attraverso cui «l’uomo produce l’uomo».  Un’incertezza ontologica nei nostri confronti con la tecnica che, in fin dei conti, è un’incertezza su ciò che ci fa umani – questo il monito di Čapek. 

Incertezza che si trascina nel campo ontologicamente primario del lavoro. Un lavoro che può, con o in assenza di macchine, riprodurre non solo altro lavoro, ma generare dignità, relazione, passione. 

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