Colpa e azione nell’Antropocene

Autore

Alessandro Picone
nato ad Avellino 25 anni fa, ha conseguito la laurea magistrale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Torino discutendo una tesi in Filosofia della Storia su "Ivan Illich. Un pensatore ai limiti" con relatore Enrico Donaggio. In precedenza aveva conseguito la laurea triennale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Firenze con una tesi in Filosofia Teoretica su "L'insondabile profondità: la questione dell'identità personale tra Locke e Leibniz", relatrice Roberta Lanfredini.

Succede che il 71% delle emissioni globali siano provocate da meno di 100 compagnie, eppure la colpa del riscaldamento globale sarebbe principalmente di coloro che usano l’auto, che non fanno la differenziata o che mettono al mondo prole

Occorrerebbe abbandonare la fede nell’individuo autonomo che ha rappresentato il fulcro non solo del neoliberismo, ma anche di tutta la tradizione liberale, per dare una dimensione collettiva e radicale alle proprie istanze. Per rompere col mito della pratica atomizzata e riprendere a coltivare aspettative nei confronti della possibilità di poter incidere politicamente sul proprio destino.

Nel 2000 il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen ha coniato il concetto di Antropocene osservando che alcuni dei cambiamenti causati dalla Rivoluzione industriale rimarranno per sempre impressi nella geologia del pianeta: la presenza di nucleotidi radioattivi, l’innalzamento del livello degli oceani, la rapida estinzione delle specie, e altro (P. J. Crutzen, Geology of Mankind: The Anthropocene, «Nature», 415, 2002, p. 23).

Secondo Crutzen, dovremmo considerare concluso il periodo dell’Olocene e parlare per il presente di una nuova epoca geologica, che ha proposto di chiamare Antropocene per indicare che l’essere umano si è trasformato, da agente biologico, in una forza geologica.

La sua proposta è stata velocemente accolta da altri scienziati e ne è seguito un dibattito ampio ed esteso anche al di fuori della comunità scientifica. L’accattivante unicità che risiede nell’idea di Antropocene e nel dibattito che la circonda è dovuta anche al fatto che tale argomento si configura come uno dei più grandi atti d’accusa che sia mai stato mosso nei confronti dell’Homo sapiens – al punto da far dubitare del suo participio di specie, sapiens appunto.

Gran parte del dibattito sull’Antropocene è dominato da disaccordi sui criteri utilizzati per definire il punto di partenza della nuova epoca geologica e da controversie sulla denominazione. Appare evidente che bisogna anzitutto disporre di una teoria che spieghi l’eziologia dei pericoli che incombono, e non è chiaro chi dev’esser collocato sul banco degli imputati, e sulla base di quali accuse.  Se c’è una cosa che il cinema ci insegna è che, per capire e raccontare qualcosa, è decisiva l’inquadratura scelta, la cornice, il frame.

Le motivazioni ideologiche che hanno portato Crutzen a parlare di una “geologia dell’umanità” sono sospette, perché l’espressione porta acqua al mulino di chi dà la colpa di tutti i mali del mondo a una sorta di “gene faustiano” annidato nella mente dell’Homo sapiens in quanto specie, distogliendo l’attenzione dalle responsabilità specifiche del capitalismo.

«L’ “Antropocene” potrebbe essere un concetto e una narrazione utile per gli orsi polari, gli anfibi e gli uccelli che volessero sapere quale specie stia causando tale caos nei loro habitat, ma che purtroppo non hanno la capacità di esaminare e resistere alle azioni umane» – affermano provocatoriamente Andreas Malm e Alf Hornborg (A. Malm, A. Hornborg, The geology of mankind? A critique of the Anthropocene narrative, «The Anthropocene Review», XX(X), 2014., p. 6). Per di più, chiosano Christophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz, si tratterebbe di orsi polari, anfibi e uccelli «scarsamente ferrati in “umanologia”, incapaci di discernere i “maschi dominanti” e le asimmetrie di potere nella complessa catena causale che collega la riduzione del loro habitat all’attività umana» (C. Bonneuil, J. B. Fressoz, La terra, la storia e noi. L’evento Antropocene, Treccani, Roma 2019, p. 80).

In effetti, un’analisi accurata della catena causale che ha portato all’attuale perturbazione climatica non può separare la curva delle emissioni di gas serra dalla realizzazione storica di un certo modo di produzione e di ordine sociale. Per questo, da sinistra, molte voci si sono levate per l’introduzione della nozione di Capitalocene al posto di quella di Antropocene, al fine di reintrodurre nel cuore del dibattito scientifico l’elemento sociale e storico, e impedire che vengano messi in ombra dalla geologia. Secondo i geologi che hanno proposto il concetto di Antropocene, il passaggio d’epoca non dovrebbe essere avvenuto fino alla seconda metà del XX secolo, per cui non è la specie umana a esserne responsabile ma il modo capitalistico con cui produce la sua esistenza sociale.

Oltre all’evidente rilevanza storica, le diagnosi sull’origine dell’Antropocene hanno anche una fondamentale importanza politica: la prospettiva che si adotta informa l’approccio alla crisi climatica e, al momento, diversi sono i fenomeni cui viene dato un significato patologico, diverse sono le possibilità di guarigione discusse, diverse sono le terapie complessive suggerite.

Come si può fermare il processo che sta rendendo la Terra sempre meno abitabile? Per quanto confortante possa essere credere alla celebre frase attribuita a Eduardo Galeano sul potere delle persone comuni di modificare il mondo con piccoli atti («Mucha gente pequeña, en lugares pequeños, haciendo cosas pequeñas, puede cambiar el mundo»), è importante sottolineare come questi e la loro promozione possono sì contribuire alla creazione di una coscienza diffusa sul problema, ma non sono sufficienti. Non possono essere l’unica risposta a oltre due secoli di impatto devastante sulla Terra, partendo anche dal presupposto che le responsabilità dell’Antropocene, nelle parole di Philippe Descola, non vanno ricercate nell’umanità in generale ma in «un sistema, un modo di vivere, un’ideologia, una maniera di dare senso al mondo e alle cose che continua a sedurre e a diffondersi» (P. Descola, Umano troppo umano, «América Crítica», 4, 1, 2020, p. 81) e che dunque anche le soluzioni non potranno venire esclusivamente dall’azione delle singole persone ma dovranno interessare anche e soprattutto un cambio del paradigma economico e una riforma sostanziale del modo di vivere sulla Terra.

Troppo spesso si legge e si sente dire che certi problemi di ordine sistemico (in tutto e per tutto riconducibili al fatto che le nostre società vivono abbarbicate a modelli culturali, politici ed economici in avanzato stadio necrotico) sarebbero “colpa delle persone”. Difficile non pensare all’eccellente opera di “agnotologia” che il neoliberismo è riuscito a compiere: incistando nelle menti dei più la totale sconoscenza dei volumi e delle proporzioni di colpe e responsabilità, così che, dopo un angosciante vorticare, i pensieri confusi che si agitano nelle menti di ognuno culminano in un’unica certezza: “è così che vanno le cose, non c’è nulla da fare”.

Per cui, succede che il 71% delle emissioni globali siano provocate da meno di 100 compagnie, eppure la colpa del riscaldamento globale sarebbe principalmente di coloro che usano l’auto, che non fanno la differenziata o che mettono al mondo prole.

Le donne perdono il lavoro in numeri da capogiro, ne muore una ogni tre giorni per mano dell’ex, ma la colpa del ruolo minoritario assegnato loro nella società sarebbe delle donne stesse, ché perdono il tempo a lamentarsi invece di fare qualcosa: scappare, denunciare, evitare di uscire da sole, vestirsi diversamente

Dopo un anno di pandemia globale, non è stata ipotizzata una seria ricostruzione della sanità pubblica; non c’è stato un adeguamento delle strutture che ospitano lavori e servizi essenziali; nessuno studio è stato compiuto per consentire lo svolgimento di eventi pubblici in sicurezza; non c’è stato nessun potenziamento della rete dei trasporti. Nella sostanza si è fermi, come un anno fa, e la colpa per il fatto di essere ancora a questo punto sarebbe soprattutto delle persone a passeggio.

Le case farmaceutiche non rispettano i contratti, nascondono i vaccini, li vendono al miglior offerente, comunicano dati parziali e incoerenti e speculano sulla morte di centinaia di migliaia di persone; i governi – dopo una pur giustificabile prima fase di emergenza – si mostrano del tutto incapaci di pianificare e gestire una campagna vaccinale di massa, eppure la colpa per il mancato raggiungimento di un’accettabile livello di immunità sarebbe di quella minima percentuale di popolazione che rifiuta la vaccinazione.

Si aggravano i sintomi psichici, per cui aumentano i suicidi tra i giovanissimi, le depressioni, gli attacchi di panico (che hanno come fondamento una generale percezione di mancanza di senso per la propria esistenza individuale e quella collettiva, aggravata dalla sospensione ad libitum della vita sociale), e la colpa sarebbe della persona che sta male: troppo debole, troppo viziata.

Le donne perdono il lavoro in numeri da capogiro, ne muore una ogni tre giorni per mano dell’ex, ma la colpa del ruolo minoritario assegnato loro nella società sarebbe delle donne stesse, ché perdono il tempo a lamentarsi invece di fare qualcosa: scappare, denunciare, evitare di uscire da sole, vestirsi diversamente.

Ora, è chiaro che la soluzione non sia, all’opposto, rinunciare a qualunque genere di responsabilità personale, ché significherebbe rinunciare a ogni potere e sentirsi sconfitti in partenza: impossibilitati e impossibilitate a compiere una qualsiasi azione che possa dirsi o pensarsi efficace. Ma è evidente come tali narrazioni o azioni non possano essere isolate, attagliate alle limitate potenze delle singole persone e occorra, invece, farle rientrare in uno sforzo collettivo che miri a ritessere i sensi e gli scopi delle società umane.

Come se la responsabilità di ogni singola persona potesse essere paragonabile a quella di una multinazionale di combustibili fossili, che sta trivellando alla ricerca di petrolio e deformando la politica di tutto il mondo per continuare a farlo. Ma il mito del potere del singolo (che fa da contraltare alla sfiducia nell’azione collettiva) attinge anche a qualcosa di più profondo – la spina dorsale del neoliberismo come progetto di ordine antropologico – che è la nozione di responsabilità individuale e di individui come monadi sociali che agiscono in termini di calcolo egocentrico, unità primarie attraverso le quali opera la società. Perché, come ha detto Margaret Thatcher, “non esiste la società, ci sono solo individui e famiglie”.

Nel riuscito tentativo di rompere con il collettivismo socialdemocratico e socialista, il neoliberismo ha investito un massiccio sforzo ideologico per rilanciare questa concezione dell’individuo, con tutto il suo corollario di discorsi su scelta e responsabilità. Occorrerebbe allora abbandonare la fede nell’individuo autonomo che ha rappresentato il fulcro non solo del neoliberismo, ma anche di tutta la tradizione liberale, per dare una dimensione collettiva e radicale alle proprie istanze. Per rompere col mito della pratica atomizzata e riprendere a coltivare aspettative nei confronti della possibilità di poter incidere politicamente sul proprio destino.

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