A volte le parole ci tradiscono, o meglio: ci tradisce il loro instabile significato. L’umiltà è assimilata alla perfezione: Petrarca la trova degna del Paradiso. È forse la caratteristica umana più ammirabile. L’umiltà dei bambini che apprendono, che apprendono tutto, dall’afferrare al guardare. Quell’impegno, quella fatica quotidiana dell’apprendere. L’apprendimento è umiltà. L’apprendimento può essere guidato, c’è bisogno di maestri, ma non può che essere volontario. Un allievo conserva sempre la facoltà di non apprendere: il somaro è colui che non vuole ascoltare. L’umiltà non è passiva, è anzi famelica, come un bambino che si ostina a ripetere ossessivamente il gesto di lanciare una palla. Puoi costringere qualcuno ai lavori forzati, ma non puoi costringerlo a apprendere se non vuole. Quando racconto nelle scuole come Robert Louis Stevenson ha deciso di apprendere l’arte della scrittura i ragazzi restano a bocca aperta. Il giovanissimo Stevenson ha copiato tutti i romanzi di Walter Scott, diligentemente e senza aggiungere una virgola. Si è lasciato attraversare dalla scrittura di un maestro. Ne ha ascoltato il suono, soprattutto, lo ha eseguito come si esegue uno spartito. È maestro chi consideriamo maestro, è l’atteggiamento che stiamo osservando, non il valore obiettivo del maestro. È giusto ricordare Ivanhoe ma come paragonarlo al Master of Ballantrae… Stevenson era già, molto probabilmente, miglior scrittore del suo maestro. Eppure anche a distanza di anni continuava a ricordare come essenziale questa parte del suo apprendistato. La caratteristica principale dell’apprendimento è la sua appartenenza al mondo della libertà. L’umiliazione invece è tutto il contrario anche se ha la stessa apparenza. Non genera apprendimento ma soltanto rancore (giustificato) e dolore. L’umiliazione ci insegna a odiare, non è fatta per apprendere altro. L’umiliato tace, china il capo rabbioso, gli altri lo guardano subire in silenzio la peggiore delle punizioni. Chi ha insegnato nelle scuole dell’obbligo conosce perfettamente il muro di gomma che può erigerti contro uno studente quando rifiuta il tuo insegnamento. Non puoi costringerlo in nessun modo, neppure umiliandolo, puoi soltanto sedurlo trasmettendogli l’autenticità della tua vocazione. Ricordo una piccola fabbrica in cui lavoravo da ragazzo. Il direttore commerciale lasciava la porta aperta e cominciava a sgridare violentemente i venditori: “E lei si rimetta i denti, ha capito? altrimenti la caccio, perché lei fa schifo e nessuno comprerebbe niente da uno straccione come lei…”. Si sentiva in tutti i reparti. Ogni giorno qualcuno veniva trattato così. Una persona può sentire il bisogno di incatenarsi alla scrivania per studiare il greco, ma le catene deve indossarle volontariamente. Perdendo la libertà si perde tutto, a cominciare dalla dignità, che è un “tutto” in sé. Non si può costringere qualcuno all’umiltà, la costrizione violenta una parola purissima e la trasforma in offesa gratuita, in ferita. La lingua della costrizione appartiene sempre al potere, al quale va benissimo stabilire un rapporto basato sulla frustrazione e sul rancore silenzioso. Ho appena scritto un libro, sul rancore. Conosco il male infinito che suscita e lo considero degno della massima attenzione. Un cane costretto all’umiliazione della catena prima o poi, possiamo esserne certi, morderà qualcuno.