La ribellione non si improvvisa. A 60 dalla «Lettera dal carcere di Birmingham» di Martin Luther King

Autore

Gabriele Arosio
Educatore professionale e Pastore della Chiesa Evangelica Battista di Bollate; autore del volume Gesù nella mia storia. Preparare e vivere il battesimo, Claudiana, 2021.

Intervista a Marta Gara

«Come in tante esperienze passate, ci trovammo a fare i conti con le speranze deluse e scese su di noi l’ombra oscura di una profonda frustrazione. Così, non ci rimase altra soluzione se non quella di organizzare un’azione diretta, con la quale avremmo offerto i nostri stessi corpi come mezzo per porre il caso di fronte alla coscienza della comunità locale e nazionale. Eravamo consapevoli delle difficoltà di tale lotta, perciò decidemmo di passare attraverso un processo di auto-purificazione, a partire dall’organizzazione di centri di addestramento alla non violenza, domandandoci a più riprese: Siete capaci di ricevere percosse senza reagire? Siete in grado di sopportare i patimenti del carcere? Decidemmo di porre in atto il nostro programma di azione diretta intorno alla Pasqua…». (Martin Luther King, Lettera dal carcere di Birmingham)

Sono trascorsi 60 anni in questi giorni da quando il pastore battista Martin Luther King Jr. scrisse la sua famosa Lettera dal carcere di Birmingham, dove era incarcerato per la sua partecipazione ad una protesta nonviolenta contro la segregazione razziale. Eventi e mostre recenti negli Stati Uniti legati a questo anniversario hanno messo in evidenza il continuo interesse e la rilevanza della lettera di King, in cui il leader dei diritti civili proclamava: «L’ingiustizia che si verifica in un luogo minaccia la giustizia ovunque. Siamo intrappolati in un’inevitabile rete di reciprocità, legati in un’unica trama del destino. Tutto ciò che colpisce direttamente uno colpisce indirettamente tutti».

Per molti leader religiosi americani che hanno celebrato l’anniversario, la missiva che King scrisse in risposta alla dichiarazione di otto religiosi convinti che le ingiustizie sociali esistenti si combattessero solo nei tribunali e non nelle strade, rimane una “road map” della ribellione per coloro che lavorano sulla giustizia e sull’uguaglianza dei diritti anche per l’oggi.

L’occasione per approfondire quella lettera è un incontro che ho avuto con la professoressa Marta Gara, studiosa di storia degli Stati Uniti che collabora come docente con il dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, in cui ha conseguito il dottorato di ricerca in Istituzioni e politiche nel 2021. Si occupa di storia delle istituzioni e dei movimenti sociali statunitensi ed è specializzata in teoria e pratiche di democrazia partecipativa. Alla ricerca accademica affianca progetti di public history per istituti di cultura e associazioni, come Fondazione ISEC e Pop History.

  1. La storia delle conquiste civili e sociali è piena di atti di disobbedienza civile. La storia di Martin Luther King si inserisce in questo capitolo della storia umana: un disobbediente che ha permesso al suo paese, gli Stati Uniti, con la sua rivolta un progresso spirituale e civile di grande portata. King scrive un giorno una lettera che è un vero e proprio manifesto della ribellione. La scrive dal carcere di Birmingham. E’ stato arrestato perché ha aderito alla protesta per chiedere diritti civili per la popolazione nera in una città simbolo della segregazione razziale in vigore negli Stati Uniti in quegli anni. La prima cosa che vorrei chiederti, Marta, è di raccontarci il clima di quegli anni. Qual è la diffusione del disagio e della protesta?

La protesta a Birmingham in Alabama del 1963 è uno dei momenti culminanti della protesta del movimento per i diritti civili che gli studi storiografici per convenzione fanno partire dal boicottaggio degli autobus a Montgomery che apre la storia per la conquista dei diritti civili e politici degli afroamericani. Era una lotta contro le leggi di segregazione locali e statali nel Sud degli Stati Uniti, rafforzata dalle vessazioni verso gli afroamericani promossa dalla radicata cultura del suprematismo bianco. Da tempo, ormai da secoli, era in vigore questa prassi in quegli stati dove fino agli anni Sessanta dell’Ottocento gli afroamericani erano vissuti in condizioni di schiavitù al servizio dell’economia latifondista.

La lotta contro la segregazione del sud e la piena conquista dei diritti civili degli afroamericani che solo formalmente erano considerati cittadini inizia con la fine del 1955 e l’inizio del boicottaggio. Le comunità afroamericane cominciarono ad andare a piedi e si rifiutarono di prendere gli autobus che erano i consueti mezzi di trasporto per una fascia di popolazione a reddito prevalentemente basso e medio basso. La povertà era endemica anche per una serie di blocchi economici operati dal regime segregazionista. La Corte suprema alla fine del 1956 sancì l’incostituzionalità della separazione tra neri e bianchi per quanto riguarda i posti nei trasporto locale. Si crea a quel punto una prima organizzazione che guida il boicottaggio e poi sorge la Conferenza delle chiese del sud (SCLC) che sarà il braccio operativo e spirituale del movimento dei diritti civili nel Sud. Era una struttura gerarchica guidata da pastori e attivisti che operava a livello locale in collegamento con l’NAACP, un’organizzazione, la più importante organizzazione nazionale afroamericana per le battaglie legali, fondata all’inizio del Novecento. Il suo ruolo pubblico, non solo nei tribunali, emerge in quel periodo. Non a caso quando Martin Luther King viene nominato guida del boicottaggio di Montgomery, prima era stato nominato presidente locale della sezione cittadina dell’NAACP. Suo padre lo era stato nella sezione di Atlanta, in Georgia.

King veniva da una famiglia di attivisti, se pur un attivismo silenzioso così come era stato praticato fino a quel momento.

La Conferenza delle chiese del sud, chiese battiste afroamericane, è il principale motore del movimento fino agli anni 60. 

Dopo il successo di Montgomery si attivano altre proteste a livello locale con altre organizzazioni guidate da pastori battisti e congregazioni protestanti. La sfera spirituale e l’attivismo sociale erano fortemente correlate.

Nel 1960 viene fondato lo SNCC, Students for Nonviolence Coordinated Committee. Si trattava della prima organizzazione composta da giovani e studenti, fondata e sollecitata da Ella Baker che aveva una lunga storia di militanza risalente a prima di Montgomery, in organizzazioni che si battevano per la promozione della presenza afroamericana nella vita pubblica. In disaccordo con una gestione verticistica e maschile della Conferenza delle chiese del sud, Baker coltivava quella sensibilità che esplode nei primi anni Sessanta tra gli studenti, per un’attivazione pubblica in prima persona. Lo SNCC nasce all’indomani dei sit-ins nelle tavole calde promossi da giovani educati alla nonviolenza in corsi clandestini nelle università per soli neri del Sud.

I sit-in nelle tavole calde, messi in campo dai giovani neri all’inizio del 1960, erano azioni che violavano la norma di separazione tra bianchi e neri in vigore negli stati del Sud. Erano regole a cui i neri dovevano sottostare per essere serviti in qualsiasi tipo di ristorazione, come nel resto degli spazi pubblici. Gli studenti occupano i posti riservati ai bianchi, resistono ai tentativi di proprietari e clienti di non servirli e cacciarli e la polizia compie veri e propri atti di violenza e numerosi arresti. Ispirati dall’ondata di sit-ins, ripetuti in molte città, anche molti studenti e giovani bianchi raggiungono il Sud in estate. Partono dal nord numerosi autobus di attivisti pronti per le campagne di sensibilizzazione al voto degli afroamericani nel Sud.

Tutto questo attrae anche l’attenzione dei media nazionali e l’attenzione di circoli e organizzazioni progressiste sensibile all’argomento, soprattutto tra quei gruppi di studenti che nel Nord stavano dando vita nel frattempo alla cosiddetta New Left. Non siamo ancora ad un’attenzione capace di coinvolgere la maggioranza dei cittadini americani. Questo accadrà solo alla fine del 1963, all’indomani di Birmingham, che non a caso è considerata la prova di forza del movimento dei diritti civili che porterà il presidente Lyndon B. Johnson ad accelerare il processo di approvazione da parte del Congresso federale del Civil Rights Act nel 1964, atto formale della fine del regime di segregazione razziale nel sud.

2. La lettera è scritta da King il 16 aprile 1963 sulla carta igienica, l’unica disponibile nella sua cella. E’ una risposta alla dichiarazione scritta da otto religiosi qualche giorno prima intitolata A Call For Unity. Gli autori (un ebreo, un cattolico e sei evangelici, tutti bianchi) pur consapevoli che le ingiustizie sociali esistevano, auspicavano che la battaglia contro la segregazione razziale si combattesse solo nei tribunali, non nelle strade. King rispose che senza l’azione diretta e non violenta come la sua, non si sarebbero mai potuti ottenere dei veri diritti civili. Qual era la qualità non violenta della protesta di Martin Luther King?

Le proteste erano certo guidate dalla figura di Martin Luther King ma dobbiamo ricordarci che era circondato da consiglieri spesso più esperti di lui sulla teoria, le tecniche e le strategie della nonviolenza. La teoria e le pratica della nonviolenza nel contesto americano affondava le sue radici nei decenni precedenti e la figura di King divenne la più rappresentativa solo alla fine degli anni Cinquanta. Il movimento si basava inoltre su un’organizzazione estesa e composita, con numerosissimi attivisti e gruppi diversi.

La nonviolenza promossa da Martin Luther King è una forma di disobbedienza civile e non è resistenza passiva. Meglio parlare di azione diretta nonviolenta, perché così si evidenzia l’attivazione necessaria da parte delle persone; dei fedeli in quel contesto. La fede, o più in generale la spiritualità e la forza morale, era una componente essenziale della vita di quel movimento. L’azione diretta nonviolenta implica l’uso del corpo, che viene messo in prima linea. Gli attivisti sapevano allora che si dovevano esporre pubblicamente e questo comportava enormi rischi: subire aggressioni verbali o fisiche. Si poteva (e si può) rischiare la vita. Le azioni nonviolente erano pensate per creare situazioni che evidenziassero in maniera dirompente le contraddizioni del razzismo, volte a suscitare una reazione il più forte possibile, a favore di un immediato riconoscimento da parte di chi osservava. Gli attivisti erano consapevoli che così il loro messaggio sarebbe arrivato in modo più immediato.

L’organizzazione delle proteste mirava anche a preservare il più possibile la vita di chi si attivava, scendeva in strada per marciare, restava seduto nei sit-in, boicottava i trasporti pubblici o gli esercizi commerciali. Si cercava di preparare e proteggere chi certamente sarebbe stato arrestato per violazione di leggi e regolamenti, con risposte per vie legali e fondi per le cauzioni.

Quel che possiamo attribuire al rilievo pubblico di Martin Luther King in quel periodo della vita del movimento per i diritti civili, è che l’azione non violenta diventò per la prima volta di massa. Ciò comportò un’accelerazione di tutte le dinamiche implicate, che fossero sociali, civili, psicologiche. L’impatto fu tale da creare un graduale spostamento dell’opinione pubblica durante tutta la sua vita, e suscitare il cambiamento di passo a livello dell’amministrazione federale, che era allora la più sensibile alla causa desegregazionista. Kennedy aveva già voluto incontrare King, fin dalla campagna elettorale del 1960 e la sua amministrazione intervenne a protezione del pastore battista in diverse occasioni. Fu poi l’amministrazione Johnson che portò a compimento le due riforme che misero formalmente fine alla segregazione razziale: il Civil Rights Act e il Voting Rights Act, rispettivamente nel 1964 e nel 1965.

Peculiarità di Martin Luther King fu poi la sua grande capacità retorica, che la lettera dal carcere di Birmingham esprime perfettamente. King era un raffinato intellettuale e attraverso i suoi sermoni rese accessibile a un gran numero di fedeli e cittadini la forza morale della beloved community, la comunità dell’amore, che vede nella nonviolenza uno strumento fondamentale di azione. I suoi primi uditori erano all’inizio i cristiani delle chiese battiste. Partì da Montgomery, ma poi sfruttò la sua popolarità al servizio di altre cause locali.

Il suo pensiero di attivista venne per certi versi plasmato dall’esperienza, traendo ispirazione dal portato di chi l’aveva preceduto nelle varie organizzazioni che da tempo operavano per combattere la segregazione razziale. Quando a Montgomery venne indicato come presidente della MIA, l’associazione creata per gestire il boicottaggio degli autobus, King era infatti al suo primo incarico come pastore battista nella chiesa di Dexter Avenue. Aveva conosciuto il pensiero del Mahatma Ghandi durante gli studi, ma non si era mai addentrato nell’applicazione della nonviolenza. Un’influenza imprescindibile ebbero su di lui e sulle scelte del movimento i suoi collaboratori più stretti, che avevano alle spalle una militanza più solida. Pensiamo alla formazione di Bayard Rustin, che faceva parte della War Resisters League e della Fellowship of Reconciliation, come anche Glenn Smiley; all’assistente di King Ralph Abernathy, molto più anziano di lui o all’illustre pacifisca A. J. Muste. 

Erano insomma persone con esperienza organizzativa, che con i loro studi e ricerche, e le loro reti di scambi internazionali legate al pacifismo, hanno contribuito negli anni alla formulazione di quella peculiare declinazione anglo-americana della teoria della nonviolenza, che è debitrice anche della cultura quacchera.

Non dimentichiamo infine la qualità creativa e costruttiva che Martin Luther King riconosceva alla nonviolenza. Ne fa menzione proprio nella lettera dal carcere di Birmingham, quando scrive: “So I have not said to my people, ‘Get rid of your discontent.’ But I have tried to say that this normal and healthy discontent can be channeled through the creative outlet of nonviolent direct action”. 

Lui ha attraversato da protagonista un momento storico caratterizzato dal confluire nella protesta di energie diversificate, che provenivano dalle comunità afroamericane del Sud e dall’attivazione dei militanti al Nord, dei giovani e degli anziani, un movimento intergenerazionale e interraziale contro il razzismo, il militarismo e la povertà che vide un fiorire di tecniche differenti di protesta nonviolenta, per gran parte degli anni Sessanta. Fu anche in questo senso un periodo innovativo, alle cui strategie organizzative si sono ispirate poi in tante battaglie dei decenni successivi, progressiste e non. 

3. C’è un punto importante che Martin Luther King solleva, affermando nella lettera che la giustizia raggiunta troppo tardi è giustizia negata. E’ il tema dell’urgenza dell’azione e della legittima impazienza degli oppressi, un argomento che si ritrova spesso nei discorsi di King.

Con tutte le differenze del caso, potremmo dire che questo tema riguarda anche la questione ambientale, alla luce dell’irreversibilità dei danni e del breve periodo a disposizione per invertire la rotta politica e che c’è una vicinanza tra la rivolta di King e quella degli attivisti ambientalisti di oggi?

Ci sono ovviamente dei distinguo da fare tra i due movimenti che porti a paragone. Riguardano i contesti storici, ma questi implicano differenze di sostanza nella modalità di fare attivismo. 

In questo senso credo sia rilevante definire più precisamente la questione del tempo.

La lettera dal carcere di King è un perfetto esempio della sua capacità retorica, cristallina e capace di grande forza persuasiva. Il tempo è l’espediente retorico di tutta la lettera, è un fil rouge che permette al lettore di seguire lo sviluppo dell’argomentazione e il crescendo che si dispiega in maniera evidente. King usa questo espediente per esprimere la sua delusione verso le comunità religiose bianche che hanno dichiarato apertamente di non voler sostenere la battaglia delle chiese afroamericane contro la segregazione. Ed è questo l’aspetto che ha reso particolarmente rilevante la lettera da un punto di vista storiografico. 

Tra l’altro è interessante vedere che la scrive in carcere; cosa che aveva già fatto in precedenza. Aveva trascritto due suoi sermoni mentre si trovava in carcere ad Albany nel 1961. Voglio sottolineare quanto fosse inaudito questo atto di accusa pubblico di King. Il contesto era per certi versi diverso da quello europeo o italiano. Negli Stati Uniti coesistono numerosissime congregazioni e chiese. Ciò ha portato ha consolidarsi storicamente un discorso pubblico interfaith, che potremmo tradurre come ecumenico e interreligioso: un dialogo per una pacifica convivenza, di presenza pubblica e politica, è sempre stato alimentato. Vero è che soprattutto dagli anni Settanta in avanti si sono approfondite le fratture tra le chiese più conservatrici e quelle più progressiste – con molte chiese evangeliche che hanno preso posizione pubbliche vicine alle frange repubblicane più di destra. In quel periodo tuttavia una certa collaborazione era attesa. E King dà voce a una insofferenza che i credenti afroamericani pativano e mostravano da molto tempo, poiché c’erano autorità religiose cristiane che non battevano ciglio di fronte all’esposizione di croci del Ku Klux Kan.

King si espose perché gli altri leader religiosi proprio durante le proteste di Birmingham lamentarono che la battaglia del movimento dei diritti civili era intempestiva e tendenziosa, volta a provocare, a creare dissidio invece che pacificare.

Si coglie bene dunque come il pacifismo applicato attraverso la lente della nonviolenza faticasse a trovare consensi trasversali, perché  spesso confuso nell’immaginario collettivo con la resistenza passiva. King, dunque, riprese la questione del tempo in maniera molto efficace, proprio perché era uno degli argomenti utilizzati da chi lo criticava.

Di fatto, nella lettera conclude sottolineando che in fondo il tempo è neutro, in modo da smontarne ogni uso pretestuoso. Ma a questa constatazione arriva solo in chiusura. Prima descrive quanto a Birmingham è avvenuto: abbiamo atteso prima di manifestare, dice, abbiamo marciato, siamo venuti al tavolo della negoziazione e sono state lanciate bombe contro di noi; a questo punto non ci resta che attivarci ancora. King insomma scandisce le fasi della mobilitazione fin lì sviluppata per combattere il regime segregazionista di Birmingham come fosse un’azione dettata dai tempi della reazione locale, per ribadire il rispetto prestato al dialogo e della vita civile locale messe in primo piano dai suoi detrattori.  Tuttavia quella era solo una parte della verità. Dietro agli atti pubblici a Birmingham c’era infatti una attenta organizzazione. Tutto era stato pianificato con grande anticipo dalle organizzazioni afroamericane, tenendo conto delle possibili variabili e contestazioni locali. Non esiste infatti mobilitazione efficace senza una certa organizzazione. King e suoi collaboratori si erano riuniti alla fine del 1962 in un hotel di Birmingham per pianificare e studiare il terreno, sapendo che l’estate del 1963 avrebbero portato militanti e attivisti. La chiamarono “operazione C”, operazione caos. Decidettero infatti di sperimentare in maniera combinata tutte le tecniche di nonviolenza fino ad allora adottate in altre proteste locali. Ad esempio, una delle mosse da considerare sarebbe stata quella di saturare di attivisti le carceri. E così infatti avviene con gli arresti di massa in cui King è incluso, fino alla resa dell’amministrazione della città. Birmingham fu uno dei primi momenti di popolarità mediatica delle campagne per i diritti civili al Sud, perché la polizia arrivò a scagliare i cani contro la popolazione civile e si susseguirono atti dinamitardi contro gli hotel che ospitavano gli attivisti, e contro lo stesso quartier generale di King.

4. La nonviolenza anche se parte da un centro, cioè dalla scelta personale dell’individuo che agisce, è sempre in potenza collettiva, ha vocazione di moltitudine: la lotta contro la segregazione razziale può certo iniziare da Rosa Parks, o da Martin Luther King, ma risuona e fa la storia quando le strade si riempiono per le grandi marce.

L’atto eclatante e individuale può avere risultati, specie quando serve per ottenere visibilità, ma lo stesso atto può smettere di essere fertile se non allarga la base di pressione, se finisce per essere oggetto di attenzione, senza che cambino le dinamiche di potere. Condividi l’analisi che oggi la rivolta ambientale fatica a trovare un allargamento? La comunità scientifica denuncia la situazione da decenni, le piazze si sono riempite di giovani per i Fridays for Future, ma il negazionismo climatico continua a influenzare la politica, che si esibisce in tentativi di repressione verso chi compie azioni di disobbedienza civile.

Anzitutto mi sento di dire che la disobbedienza civile ha trovato altre strade oltre alla nonviolenza. Penso a Thoreau che non pagava le tasse per non finanziare la guerra degli Stati Uniti contro il Messico, rifiutandosi dunque di compiere il proprio dovere di cittadino per contestare alcune azioni di governo. La renitenza fiscale era una pratica di disobbedienza civile attuata anche dai quaccheri, negli Stati Uniti e altrove.

La disobbedienza civile non è per forza vocata alla moltitudine. L’azione di un singolo può essere efficace sia se riesce a conquistare una certa visibilità mediatica, sia perché denuncia la radicalità della presa di posizione, con la funzione di evocare l’emulazione di altri che si sentono vicini alla medesima causa. Spesso l’azione del singolo è veicolo di diffusione della protesta e/o di una maggiore presa di coscienza di singoli individui o  organizzazioni. Pensiamo al caso del manifestante che ferma i carri armati di piazza Tien An Men, un gesto storico poi assurto a vessillo di altre battaglie. Seppure possa sembrare che non abbia avuto un’efficacia immediata, il sacrificio di quel giovane ha lasciato un’eredità politica molto forte. Ci può essere anche un numero esiguo di persone che però realizzano atti così eclatanti da colpire l’immaginario collettivo. 

Pensiamo alla forma di protesta messa in scena qualche settimana fa dalla ragazza accampata con la tenda nei pressi di piazzale Leonardo, davanti al Politecnico di Milano, per denunciare l’aumento degli affitti in città. È stata poi imitata da altre organizzazioni in altre città italiane e in questo caso l’esposizione mediatica è stata funzionale. Si è trattato dunque di un atto strumentale a destare consapevolezza e altre azioni capillari sul territorio nazionale.

Per quanto riguarda la comparazione tra le storiche proteste contro la segregazione razziale negli Stati Uniti e le odierne mobilitazioni degli ambientalisti in Italia, una prima considerazione riguarda le forme della disobbedienza civile, poiché le organizzazioni giovanili attuano tattiche che spesso riferiscono direttamente alle pratiche del movimento dei diritti civili e al pensiero di Martin Luther King sulla nonviolenza. È il caso di Ultima Generazione ad esempio, come dichiarato in numerose dichiarazioni pubbliche a commento, ad esempio, dei sit-in autostradali. 

Tuttavia, nel caso della lotta per i diritti civili l’azione nonviolenta voleva creare un cortocircuito nei confronti dell’oppressione che vivevano tutti i cittadini afroamericani con la segregazione, che era de iure e de facto negli stati del Sud, ma anche abitativa ed economica negli stati del Nord. C’era una oppressione quotidiana da far emergere, attraverso i corpi visibili degli attivisti, per lo più neri, per dare voce a chi la viveva in prima persona.  

La questione ambientale è invece una delle cause che rientrano tra i problemi cosiddetti “post-materiali”. In gioco non c’è il salario, o la privazione dei diritti civili e politici, ma cause che sfuggono ad una certa visibilità materiale. E per certi versi le azioni stesse degli ambientalisti contribuiscono a dare una forma materiale e riconoscibile alla loro causa, ad esempio gettando vernice sui vetri che proteggono i quadri nei musei.  Il cambiamento climatico non implica un sistema oppressivo di comprensione immediata e questo fornisce senza dubbio spazio ai negazionisti. C’è in corso un collasso che mette a rischio la sopravvivenza; ci sono fenomeni meteorologici e delle calamità naturali molto più frequenti, ma è complesso comunicarne le cause a un pubblico vasto.

Io sono una storica, non una studiosa di fenomeni attualmente in evoluzione, quindi posso solo limitarmi a individuare dei punti di interesse e ragionare su quel che evidenziano i colleghi esperti in approcci empirici e focalizzati su fenomeni recenti.  

Proprio per questo credo che per cercare una risposta a quel che mi chiedi, cioè le ragioni della mancanza di largo sostegno per le organizzazioni ambientaliste principalmente composte da giovani, oltre che a Ultima Generazione e a Extintion Rebellion, possiamo forse guardare a Fridays for Future – che è stata la prima a radicarsi in Italia con sezioni locali malgrado recentemente abbia rallentato la sua espansione con una fase di ripensamento interno.   

Nel 2020 è uscito su The Political Quarterly un interessante articolo scientifico di due politologi italiani, Mattia Zulianello e Diego Ceccobelli, che analizzavano una serie di discorsi di Greta Thumberg definendo il suo messaggio politico come ecocentrismo tecnocratico. Greta Thumberg è una figura iconica, quasi pop ormai, ma l’osservazione dei suoi discorsi è ancora oggi particolarmente rilevante perché di fatto è stata lei con gli scioperi da scuola e i picchetti davanti al Parlamento svedese nel 2018 a lanciare l’allarme sull’emergenza climatica e innescare quella mobilitazione internazionale che fino ad allora è andata sotto il nome di Fridays for Future, e che si è poi strutturata in diversi organizzazioni nazionali. L’articolo citato sostiene che il discorso pubblico plasmato sulle dichiarazioni della Thumberg gira innanzitutto intorno all’approccio ecocentrico al problema del cambiamento climatico. L’ecocentrismo ritiene cioè che la specie umana sia solo una delle specie presenti in natura. Non si deve perciò preservare solo il benessere della specie umana, perché questa vive in maniera irrelata con tutte le altre specie presenti sul pianeta. Questa prospettiva si fonda sul sapere scientifico, su dati e scoperte che avallano l’emergenza ambientale.  L’ecocentrismo di Thumberg si combina così, sostengono gli autori, ad una sorta di fiducia tecnocratica. La tecnocrazia è in termini generali il governo degli intellettuali, dei tecnici, delle èlite illuminate. E per Greta Thunberg, come per gli attivisti da allora mobilitati, i dati sulla base dei quali andrebbero ponderate le politiche pubbliche, e gli investimenti, sono quelli forniti dalla comunità scientifica internazionale.

Ecco, queste considerazioni ci permettono di vedere bene come il vento politico in Europa e altrove spinga di fatti in senso contrario negli ultimi anni, con una rimonta dei  sovranismi e del populismo di destra, che si fonda su un agire antintellettualistico e la cui politica si sostanzia spesso nel rapporto tra il leader e i propri followers, cioè gli elettori, i governati, senza altra intermediazione. Su queste fette di elettorato sembra arduo che  possa far breccia la fiducia nella scienza senza adeguati cambi di direzione.

Si configurano piuttosto due parallele, che in termini di discorso pubblico procedono separate. Ne deriva una difficoltà per i giovani ambientalisti a trovare consenso al di là di gruppi minoritari.

Anche in Italia spesso assistiamo a politici che, come le autorità religiose bianche cui si rivolgeva King dal carcere di Birmingham, rispondono al dissenso richiamandosi a una vuota idea di pacificazione. Come se fossero gli ambientalisti a creare dissidio e danni ai beni pubblici. Si assiste addirittura a una contesa sull’uso degli spazi pubblici, per mettere a terra gli argomenti della comunità scientifica che sembra lontana.

La storia politico-istituzionale, che è propriamente il mio ambito di studio, ci consegna anche un altro strumento di analisi del cambiamento politico, che è la teoria dei network. Le politiche pubbliche sono il risultato di accordi e di scambi tra vari attori politici che dal punto di vista politico, sia pubblico che ideologico, non necessariamente si appoggiano sugli stessi valori, ma che in determinati momenti possono convergere in termini di interesse. Se guardiamo ad esempio al piano procedurale, il lungo processo legislativo che negli Stati Uniti ha portato alla fine della segregazione formale a livello federale e poi a caduta sugli altri livelli di governo,  sono molti i casi di patti e accordi politicamente trasversali e modellamento del consenso dagli anni Cinquanta fino all’inizio degli anni Settanta. 

Negli Stati Uniti si dice: se non sei sul tavolo, sei sul menù. Gli ambientalisti in Italia hanno raramente considerato la possibilità di affrontare una competizione elettorale. Potrebbe invece divenire uno strumento di mediazione e di ulteriore pressione, come ad esempio hanno cominciato a fare da un paio di anni, con esiti variegati, i gruppi di Extinction Rebellion per chiedere assemblee cittadine sui temi ambientali a supporto dei governi locali. Ancora il caso americano ci racconta che l’azione dei public interest group è consolidata dagli anni Settanta anche per i temi di salvaguardia dell’ambiente, mentre gli esponenti di Sunrise Movement o altri organizzazioni ambientaliste di recente formazione hanno cominciato a candidarsi nelle ultime tornate elettorali. Ci sono stati casi anche in Italia. Ma sono di norma processi lunghi. 

Inoltre bisogna considerare anche gli spazi che i gruppi di giovani ambientalisti stanno conquistando sul fronte mediatico, e quanto dei loro discorsi viene restituito in maniera pedissequa e approfondita dai principali canali di formazione dell’opinione pubblica. 

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