La sregolatezza delle regole

Autore

Gianpaolo Carbonetto
Gianpaolo Carbonetto è giornalista e responsabile di programmi culturali e di formazione, studioso dei fenomeni più rilevanti della cultura e della democrazia.

In Aspettando Godot Samuel Becket fa dire a Estragone: «Si nasce tutti pazzi. Alcuni lo restano». A prima vista può apparire un rovesciamento della realtà, ma, a ben pensarci, questo assunto può essere del tutto logico. La pazzia, infatti, può derivare da problemi congeniti, oppure da malattie, o eventi traumatici – fisici, o psicologici – successivi che mettono a repentaglio, o addirittura mandano in frantumi quella che viene chiamata normalità che, pur non assolutamente uguale in tutto il mondo, è sempre la prima cosa che viene insegnata fin dalla nascita in ogni luogo.

La cosiddetta normalità è l’insieme delle regole che ogni comunità si dà per indurre a un certo tipo di convivenza e, quindi, la follia può essere definita anche come la determinazione a non seguire le norme comunemente accettate; e non soltanto quelle di comportamento. Poi, se questa insofferenza alle regole comuni non dà fastidio a nessuno e magari produce illuminazioni capaci di cambiare in meglio il mondo di tutti, l’autore può addirittura essere celebrato con l’appellativo di “genio e sregolatezza”.

Un caso emblematico è rappresentato da Albert Einstein che ha avuto il coraggio di considerare non del tutto esatta la legge newtoniana della gravitazione universale e ha elaborato la teoria della relatività che sembra astrusa e lontana da chiunque non pratichi la fisica teorica, ma che in realtà è ormai ben presente in gran parte della nostra vita quotidiana. Un altro esempio, in un campo molto diverso, è quello di Marcel Duchamp che, esponendo un orinatoio come opera d’arte, ha rinunciato alle regole valide fino a quel momento e ne ha inventate di nuove che poi, pur con qualche esitazione, sono state seguite dal mondo dell’arte.

Quindi la follia può essere una malattia, ma anche una diversità. Non sono uno psichiatra e, quindi, non mi azzardo a entrare nel campo delle patologie individuali. Mi interessa, invece, tentare di capire meglio i meccanismi che portano a quella che ormai sempre più spesso si sente definire “società impazzita” e per fare questo è inevitabile partire da un’analisi di come le regole delle comunità sono definite, tramandate e, alla fine, rispettate, oppure ripudiate.

A rimarcare la differenza nella valutazione, a livello individuale e collettivo, di quella che può essere definita subdola follia, può essere d’aiuto una frase scritta da Friedrich Nietzsche in Di là del bene e del male: «La follia è molto rara negli individui, ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola».

Anche qui gli esempi si sprecano. Prendiamo quelli più clamorosi: per i cattolici la vita è sacra, tanto da considerare abominevole l’aborto anche nei casi in cui si darebbe vita a esseri senza nessuna possibilità di sopravvivenza; eppure, in vari periodi storici (Crociate e Inquisizione, tanto per citare due casi) e anche nel presente (gli attentati mortali contro i centri per l’aborto) hanno considerato l’omicidio del tutto legittimo, se non addirittura meritorio. E la stessa cosa è accaduta – e accade ancora – per i musulmani. Intere nazioni, poi, hanno accettato come normalità quello che fino a pochi mesi prima era considerata un’assurdità criminale: potrebbe essere sufficiente citare la Germania nazista, ma in tutte le dittature, pur con sfumature e metodi diversi, è successa la stessa cosa.

Detto che fortunatamente in nessuna parte del mondo c’è mai stata una totale uniformità di comportamento e di valori che non soltanto sarebbe causa di raccapriccio, ma che anche fermerebbe qualsiasi tentativo di progresso in ogni campo, non può non balzare agli occhi che le follie collettive sono praticamente sempre state di tipo attivo, nel senso che hanno visto applicare violenze da un gruppo contro altri gruppi.

Oggi, invece, le pazzie sono di forma passiva, quasi che il presente permetta di parlare di malattie mentali collettive, di vere e proprie epidemie i cui sintomi sono non soltanto la perdita di parametri e di regole comuni a livello praticamente universale, ma anche una forma di debolezza, stanchezza, pigrizia, effetti gravi perché allargano la non partecipazione e, quindi, causano non solo il blocco dell’evoluzione sociale intesa come sommatoria di saperi e capacità diverse, ma eliminano anche gran parte della concorrenza permettendo ai meno dotati di issarsi fino a posti apicali e di rafforzare la loro immeritata posizione.

Pensateci: in questi ultimi decenni vere e proprie droghe letali hanno continuato a essere iniettate a dosi crescenti non solo nella nostra nazione. La propaganda ha permesso di far apparire normali alle menti torpide il disprezzo della legge; la contraffazione della storia; l’adulterazione della democrazia rappresentativa; la derisione del senso di responsabilità; l’illusione che tutti possano diventare ricchi e risolvere i loro problemi semplicemente partecipando a trasmissioni televisive; la parificazione dell’etica con la legalità  nei casi in cui si sia già riusciti a piegare la legalità ai propri voleri; la negazione delle differenze ideali tra destra e sinistra; la trasformazione dei cittadini in consumatori; la profanazione del vocabolario che finisce per far cambiare senso a parole come libertà, conservazione, riforme, democrazia, mercato; la metodicità con la quale pensiero critico, dissenso, libertà e anarchia sono avvicinati al terrorismo, se non addirittura identificati con lui; la distruzione di diritti fondamentali già conquistati; la mortificazione e la progressiva delegittimazione delle istituzioni; l’indifferenza, se non il piacere, con cui si guarda all’allontanamento sempre più diffuso dalla politica, anche nella sua forma meno impegnativa: il voto.

E così abbiamo assistito a eventi che soltanto qualche decennio fa sarebbero apparsi come il parto di menti eccessivamente fantasiose. Putin che invade l’Ucraina e che è convinto di evitare ritorsioni soltanto imponendo di chiamare “operazione speciale” quella che in realtà è una vera e propria guerra. Berlusconi che riesce a imporre alla sua parte del Parlamento a confermare con un voto in aula che Karima El Mahroug, meglio conosciuta come “Ruby Rubacuori”, assidua partecipante alle “cene eleganti” di Arcore, era la nipote di Mubarak, mentre tutti sapevano che si trattava di una bugia assoluta. Oggi stanno cercando di convincere gli italiani che gli innegabili difetti della democrazia rappresentativa, ingigantiti scientemente proprio da chi non la sopporta, possono essere eliminati soltanto con un sistema maggioritario che porti al potere di una sola persona, o di un unico gruppo per ottenere quella che chiamano governabilità, parola che, anche se a prima vista può non sembrare, da sempre ha fatto rima con autoritarismo, o, addirittura, con dittatura

La propaganda, insomma, è diventata una scienza talmente approfondita ed efficace che il concetto di sregolatezza è passato dagli esseri umani alle stesse regole.

Ma se questa è una malattia mentale, come si può tentare di curarla? Quale può essere la terapia? Non è facile individuarla, ma probabilmente bisognerebbe agire prioritariamente sulla prima regola della propaganda che ci ha portato in questa drammatica situazione e cioè al fatto che sempre, in ogni frangente i cittadini sono indotti a pensare soltanto al presente, dimenticando il passato e trascurando il futuro perché è proprio l’assenza della memoria e della progettazione a restringere drammaticamente il campo sul quale il pensiero critico potrebbe esprimersi. E poi mettendo bene in chiaro che la distruzione sempre più vasta di ogni associazionismo e di ogni senso di solidarietà civile non valorizza assolutamente l’individuo, ma anzi ne polverizza ulteriormente l’autonomia che spesso, per rafforzarsi, ha proprio bisogno di sentire la consonanza con altri.

Insomma, la sregolatezza applicata alle regole dovrebbe ritrovare la sua posizione naturale: quella all’interno di ogni essere umano, non come pretesa follia, ma come inevitabile frutto proprio della nostra natura: il cercar di conoscere per poi ragionare e scegliere.

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