Catene invisibili correlazioni tra dipendenza affettiva, manipolazione e schiavitù

Autore

Roberta Lippi
Roberta Lippi (1974) è nata a Milano e si è laureata al Dams di Bologna in Psicologia dell'Arte. Scrittrice, autrice, giornalista e docente multimediale, è stata responsabile dello sviluppo dei contenuti per diverse realtà editoriali come Mtv Italia e Condé Nast. Come giornalista ha realizzato numerosi podcast d'inchiesta che raccolgono testimonianze dirette: Soli, dedicato ai bambini cresciuti nelle comuni di Osho, primo podcast italiano ad avere una versione internazionale); Love Bombing, raccolta di esperienze di vittime di manipolazione, con focus sui meccanismi sottostanti; Dragon Lady - L'ultima testimone, spin off di Soli; Respiro - Storie di orfani di femminicidio; Baby Gang - Il lato oscuro della adolescenza; Non farmi male - viaggio attraverso l’infanzia violata.

Manipolazione, dipendenza affettiva, violenze domestiche, addirittura sindrome di Stoccolma. Queste realtà, solo all’apparenza distanti tra loro, hanno in comune un tipo di schiavitù tra le più subdole: quella emotiva.

Anche se non ci sono catene fisiche a tenerci ancorati alla relazione, qualcosa ci impedisce di uscirne e salvarci. Anche se sappiamo che quella storia d’amore è tossica e dannosa, non riusciamo ad allontanarci dall’origine del male. 

Ma perché?

Il perché sta tutto in quel primo incontro, quello in cui abbiamo incontrato il carceriere. 

Solitamente chi vuole trascinarci in una trappola, in una relazione disfunzionale o in una relazione altamente manipolativa, farà in modo, quando questa inizia, di conquistarci attraverso il love bombing: noi diventeremo per lui o per lei gli esseri umani più speciali, unici e meravigliosi del mondo. Peccato che poi molto velocemente le cose cambino. E allora perché spesso non scappiamo? Perché non siamo capaci di fuggire a gambe levate? 

Perché funziona come con le droghe o con il gioco d’azzardo: abbiamo provato quella sensazione iniziale, quella del grande amore, e ne vogliamo ancora. Sappiamo che abbiamo “vinto” una volta e andiamo avanti a giocare, sperando che presto il destino ci riporterà quella prima sensazione fatta di entusiasmo e felicità.

Il nostro bisogno d’amore e la necessità di riempire il vuoto che l’altro sta lasciando allontanandosi fanno sì che si resti, nella speranza che un giorno tutto tornerà come all’inizio, illudendoci che sia possibile, anche se la realtà dei fatti racconta ben altro.

Magari l’altro tradisce, maltratta, crea dinamiche perverse e complesse, addirittura sadiche. Eppure la vittima sta ferma. Ha sviluppato una dipendenza affettiva. Anche se sa cos’è giusto e cosa è sbagliato, è come se fosse ormai dentro a un labirinto di cui non trova la via d’uscita. 

È accaduto tutto molto lentamente, il manipolatore, il partner, il carceriere, l’ha presa per mano e l’ha portata lì, al centro. 

E adesso come se ne esce? 

Prima di tutto prendendo consapevolezza del proprio stato di dipendenza, comprendendo quali sono le dinamiche che alimentano la prigione emotiva. Quali vuoti stiamo cercando di riempire? Di cosa abbiamo veramente paura?

Spesso quella paura è qualcosa che è radicato profondamente dentro di noi, e che andrebbe indagato in un percorso di psicoterapia con un professionista. Altre volte le paure vengono inserite nel cervello della vittima proprio dall’altro, volontariamente, attraverso un lento processo di manipolazione. A volte accade attraverso piccole umiliazioni: “Ma dove vai? Ma chi ti prende? Senza di me non sei nessuno”, e via così. Nei casi peggiori ci sono le minacce e si ha paura che se ci emancipiamo da quella relazione il carnefice ci farà del male. A volte avviene tutto insieme. Sono una brutta bestia le paure, per quello la paura più grande è proprio quella di affrontare la propria paura.

È la paura a custodire in tasca la chiave della prigione emotiva.

Paura di affrontare la solitudine, paura di affrontare le proprie ferite, paura di rinunciare a ciò che sembra l’unica fonte di sicurezza emotiva, paura di scappare, paura di denunciare. 

Un’altalena perpetua tra il desiderio di libertà e benessere e l’ansia di separarsi da ciò che è diventato un rifugio sicuro, anche se doloroso e illusorio.

Ma a chi serve che noi restiamo in questo carcere: a noi o all’altro? Rispondiamo prima di tutto a questa domanda, per capire le motivazioni profonde di questa relazione di dipendenza e iniziare a pianificare la strategia di uscita. La dipendenza emotiva, come ogni dipendenza, è una malattia. Ha bisogno della nostra attenzione. Ha bisogno che ci allontaniamo dalla “sostanza”, ha bisogno che chiediamo aiuto agli altri, ha bisogno che ricostruiamo la nostra vita partendo da noi. Solo così capiremo come siamo finiti all’interno di quella relazione, ma soprattutto dove. Ci siamo ancora? 

Se siamo ancora noi, se la nostra autostima non è stata distrutta al punto da pensare che non meritiamo di vivere qualcosa di meglio, se abbiamo così tanto bisogno d’amore da punirci, se eravamo diversi o diverse prima di quel primo incontro, ecco, forse è arrivato il momento di guardarci allo specchio, liberarci dai lacci emotivi e spezzare finalmente le catene della dipendenza. 

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