La festa tra libertà e profezia. Spunti per un’ontologia del festivo

Autore

Paolo Fedrigotti
Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. Nella stessa città è docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose, nonché di filosofia e storia nei licei di Riva del Garda. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie.

Le righe che seguono intendono gettar luce sull’esperienza antropologica della festa al fine di coglierne il proprium, enuclearne gli aspetti fondamentali ed evidenziarne così la portata. Tale operazione risulta essenziale, soprattutto per la società in cui viviamo. Anche se la cosa, sulle prime, potrebbe apparire paradossale, occorre riconoscere come il nostro contesto – nonostante tutti i tentativi messi in campo per farlo – si riveli incapace di misurarsi con la dimensione del festivo: questo accade per la tendenziale inidoneità del soggetto postmoderno a metterne a fuoco la specificità, ad apprezzarne, cioè, la capacità di condensare in sé la destinazione dell’umano e la sua eccedenza rispetto a se stesso. A ben vedere, tutto nella festa tende all’eccedenza, ad una sporgenza chiaramente riconoscibile nei suoi modi, nei suoi tempi e nelle sue ritualità. Scrivono Franco Riva e Pierangelo Sequeri a tal proposito:

«Nella festa tutto è speciale, tutto eccede: eccede lo spazio, spesso alternativo alla ferialità dei luoghi; (…) eccede il tempo, che s’incunea nel ritmo dello scorrere dei giorni per portarlo a compimento, ma anche per arginare la monotonia delle faccende quotidiane, la ripetizione dell’impegno e del lavoro; eccede l’azione, che si fa cerimonia, banchetto, trasgressione, dissacrazione e perfino scherzo; eccede i ritmi, diventando ritmo altro, in qualche modo paradigmatico»1.

Ebbene, credo si possa affermare che la festa sia realmente tale quando, eccedendo dall’ordinario ed eccedendo l’ordinario, si ponga quale effettiva celebrazione dell’eccedenza dell’uomo da sé. Solo l’uomo festeggia. Harvey Cox osserva come l’uomo, per natura, sia una creatura ontologicamente portata non solo a lavorare e pensare, ma anche a cantare, danzare, pregare, raccontare storie e, appunto, festeggiare2. Wittgenstein, da parte sua, nota come l’uomo si possa definire animale cerimoniale, ragion per cui tutta la sfera di azioni che è categorizzabile come rituale ha – prescindendo dall’epoca e dallo scenario sociale di riferimento – carattere universale3. Muovendo proprio da quest’orizzonte, penso sia possibile isolare – sulla scorta di Cox e Wittgenstein – tre componenti principali della festa: c’è in primo luogo il fattore dell’eccesso consapevole, quello per cui la festa strafà di proposito; c’è poi l’elemento dell’affermazione celebrativa, del sì alla vita; c’è, da ultimo, la giustapposizione al consuetudinario per cui la festa viene esprimendo un contrasto e uno stacco rispetto alla vita abituale. Viste con attenzione, le tre dimensioni appaiono come modulazioni di un motivo più radicale rintracciabile nella libertà. 

Che la festa sia informata dalla libertà è chiaro già a partire dall’immediata valutazione della sua grammatica, capace di combinare equilibratamente allegria e compostezza, leggerezza e azione rituale. Nella festa, la libertà del tempo – un tempo che Gadamer designa come tempo proprio rispetto al tempo segnato dall’affanno del lavoro4 – si sovrappone alla libertà del fare, trasformando intimamente e perfino trasfigurando la stessa attività umana: l’inoperosità della festa non è infatti definita da ciò che in essa non si fa, quanto dal fatto che ciò che nella festa si fa viene – come dice Agamben – dis-fatto, ovvero viene liberato dalla sua dimensione economica, dal peso e dagli scopi che definiscono l’agire della ferialità5.

«La componente della libertà – rilevano ancora Riva e Sequeri – è decisiva per la festa, anche se le sue dimensioni non vi si riducono: non tanto perché vi sia dell’altro rispetto alla libertà, che tutto irradia nella festa, quanto perché, concentrandosi unicamente sull’elemento della libertà e per di più in chiave di distorsione e di frattura rispetto al tempo ordinario, si rischia per un verso di bloccare il vissuto della festa in una alternatività che la mantiene sul lato del negativo, con il rischio di provocare un capovolgimento – facilmente osservabile nei comportamenti collettivi – per cui il trasgredire in quanto tale identifica interamente [ed erroneamente] la festa e, per un altro verso, di continuare in qualche modo a farla dipendere dalla dicotomia dei tempi (feriale e festivo), nello stesso istante in cui se ne vuole, e giustamente, rivendicare l’indipendenza»6.

Quanto appena riportato – pur nella sua ermeticità – è decisivo per l’economia della nostra riflessione: per suo tramite capiamo come non tutto ciò che è considerato festa (almeno dalla maggioranza dei nostri contemporanei) lo sia veramente. Come c’è differenza – e mi pare che ad attestarlo eloquentemente sia l’ambiente socio-politico-culturale in cui ci muoviamo – tra una falsa concezione della libertà e una vera considerazione della stessa, così si dà chiara distinzione tra una festività falsa e una festività vera. La festa autentica non è puro sfogo o divertissement ma è potenziamento della libertà dell’umano e la sua specificità non consiste nella frivolezza o nella mera trasgressione ma in altro. In che cosa, in particolare? Secondo Pierre Nora, celebre storico e membro dell’Académie française, fattore tipico del festivo è, anzitutto, la memoria. La festa, in qualsiasi maniera si manifesti, è memoria, non nel suo essere proiezione all’indietro o celebrazione di eventi collocati nel passato, ma nel suo ricordare alla persona la destinazione dell’umano, una destinazione che più che definire chiama e trascina a sé. Se la festa guarda a ciò che è stato, lo fa per far spazio al nuovo, per rilanciare in avanti immettendo nell’habitat del non ancora: ponendosi come memoria, la festa è progetto e pensiero dell’impensato entro il già pensato. Secondo elemento proprio della festa, strettamente congiunto col precedente, è quello dell’impegno.

«La festa impegna – osservano di nuovo Riva e Sequeri – perché ricorda la destinazione ultima dell’uomo: la ricorda nei modi dell’eccedenza rispetto alla normalità, nella sua unicità di momento altro e diverso che non è né una fuga né un’esteriorità. La festa non placa le sofferenze e lenisce di tanto in tanto le sofferenze (…), richiama piuttosto il senso nascosto della vita. Perciò la festa non sfugge alle realtà dell’ingiustizia e del male e, pur tuttavia, contribuisce a costruire la città degli uomini»7.

In forza di questa specifica vocazione, la festa è pure comunione, giacché – a rigore – è impossibile festeggiare da soli: nella sua dialettica interna la libertà, pur rimanendo tenacemente di ciascuno, si fa patrimonio intersoggettivo. La festa, in quest’ottica, non appare semplicemente un essere insieme ad altri, è intenzione unitiva che impedisce al singolo di perdersi8. La comunanza del festivo si esprime in una partecipazione corale che tende all’intima unità di coloro che vi partecipano (fossero anche soltanto due: il loro numero, in un certo senso, è irrilevante) e che si configura, insieme, come eccedenza intima della comunità stessa e rinvio al suo esser qualcosa di più della semplice somma dei suoi membri. È forse questo l’aspetto della festa che la società postmoderna, nel suo disorientamento, è chiamata a riscoprire con maggiore urgenza: appiattita com’è al mordi e fuggi edonista del tempo libero, alla caducità dei weekend e alla volatilità degli happy hour, essa è tenuta a riscoprire la memoria della comune destinazione umana alla libertà per non rischiare di dissiparsi, corrosa dalla smemoratezza del nichilismo, dall’angoscia del disimpegno e dall’individualismo sotteso al relativismo imperante.

NOTE

  1. F. Riva-P. Sequeri, Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento, Cittadella, Assisi 2009, p. 297.
  2. Cfr. H. Cox, La festa dei folli. Saggio teologico sulla festività e la fantasia, Bompiani, Milano 1971, pp. 22-25.
  3. Cfr. L. Wittgenstein, Note sul Ramo d’oro di Frazer, Adelphi, Milano 2000, p. 26.
  4. Cfr. H. G. Gadamer, L’attualità del bello. Studi di estetica ermeneutica, Marietti, Genova 1996, pp. 45-46.
  5. Cfr. G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2009, p. 156.
  6. F. Riva-P. Sequeri, Segni della destinazione. L’ethos occidentale e il sacramento, p. 306.
  7. Ibi, pp. 311-312.
  8. Cfr. H. G. Gadamer, L’attualità del bello. Studi di estetica ermeneutica, p. 46.


Articolo precedenteLa festa è finita, andate in pace
Articolo successivoCaro De Martino

2 Commenti

  1. L’analisi di Fedrigotti, molto documentata secondo i canoni della filosofia occidentale, a parte qualche lieve riferimento, analizza la festa e la sua crisi connettendole a una ritualità che potremmo definire moralmente “positiva”. Con i connessi e condivisibili auspici ad un risveglio delle coscienze ottuse di noi che non possiamo e non riusciamo a non essere iperliberisti e individualisti, soli e alienati.
    Uno sguardo storico-evolutivo potrebbe però mostrarci una maggiore complessità della festa e la sua presenza non certo secondaria, nella guerra, nella distruzione, nelle pratiche aggressive e nel cinismo relazionale. Si può supporre che vi siano rapporti fra questo aspetto sottaciuto della festa e questo invivibile presente. Senza elaborare le interdipendenze della complessità umana, si rischia di scadere negli auspici.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Ultimi articoli

Antonino Pennisi, L’ottava solitudine. Il cervello e il lato oscuro del linguaggio, Il Mulino, Bologna 2024

Ugo Morelli: Se c’è un’esperienza che ognuno pensa di poter definire abbastanza facilmente, quella è la solitudine. Ma è poi così vero...

Il blocco dello scrittore, ma non solo…

Ore 5.00 la sveglia suona come tutte le mattine dal lunedì al venerdì, non sbaglia un colpo, finché non glielo permetto io.

Ridotti al silenzio dalle nostre chiacchiere?

«La parola è un sintomo di affetto E il silenzio un altro» Emily Dickinson, Silenzi,UEF, 1990

Scrivere: rivoluzionario più che disubbidiente

La sala è la stessa e il protagonista è il medesimo che, nel frattempo, non ha perso né fama, né carisma. Eppure,...

Risposta alla domanda: “Quale il senso di parlare a questa umanità distratta, disgregata ed in crisi che non perde occasione di manifestarsi tale ogni...

Al di là di ogni pubblica confessione, che pure qui può leggersi in controluce, lo scrivere oggi non è più possibile. La...