Una faccia in prestito

Autore

Carlo Pacher
Carlo Pacher, classe 1995, lavora per la formazione e lo sviluppo delle persone in La Sportiva. Ha conseguito una doppia laurea in Scienze Filosofiche presso gli atenei di Padova e Jena, in Germania, con una tesi dal titolo: "Intersoggettivà, costruzione, limite. Intorno alla riflessione hegeliana sul linguaggio", tema a cui ha lavorato sotto la guida dei Professori Luca Illetterati e Klaus Vieweg. Precedentemente aveva affrontato il tema della conoscenza di sé in Platone per l'elaborato di tesi triennale con il Professor Carlo Scilironi. Nell'estate 2021 ha preso parte al corso executive "Strategie e nuovi modelli di sviluppo sostenibile" presso CUOA Business School. Attivo in più realtà di volontariato sociale a livello locale, musicista per passione.

«Con una faccia imprestata da un altro che se ti fa comodo
D’altra parte vorresti la tua da offrire a quel pubblico
Che ti guarda come a carnevale si guarda una maschera
Ma intanto sa che tu non sei così.

Perché la faccia che avevi una volta è rimasta stampata qui
Nei tuoi modi di fare, nel tuo palpitare e distinguerti
Nella vecchia passione, nella tentazione di essere

Non piangere, coglione, ridi e vai.

Ho nostalgia di un golf, un dolcissimo golf di lana blu
C’era dentro un ingenuo incantato da un artista fortissimo
Stavi dietro le quinte ingolfato di swing e di lacrime

Non piangere, coglione, ridi e vai».

Una chiave privilegiata per entrare nel mistero che noi siamo è ascoltare la musica, leggere le poesie, annegarci nell’arte per comprendere qualcosa di noi al quale diversamente non avremmo accesso. Ciò che Paolo Conte in Una faccia in prestito del 1995, in versi squisitamente asciutti, riesce a ritrarre è il panorama interno in cui ciascuno si trova immerso, senza volerlo; il movimento che sentiamo vibrare nella sfida continua della nostra propria definizione, nel tentativo perenne e mai domo di stabilizzarci nella nostra identità.

Un’identità che si costruisce e ridefinisce nella relazione, o meglio: nel reticolo di relazioni che continuamente sono attive dentro di noi, intorno a noi, che interagiscono con noi, che osserviamo come lontane ed anche che accadono nonostante noi. L’esperienza di una vita intera concorre alla definizione di ciò che di volta in volta riteniamo di essere, sempre consci in certa misura di chi siamo, mai completamente. In questo gioco di relazioni, il basso ostinato sempiternamente presente è suonato dal nostro mondo interiore, sempre attivo come una sorta di base sulla quale si muove e con la quale interagisce ciò che ci accade intorno, in una dimensione in cui tempo e spazio si dilatano e sfumano nella ricerca confusa di un ordine da porre in quello che Hegel ha definito il pozzo nero della nostra coscienza (per gli interessati, si veda il saggio di Jacques Derrida, Il pozzo e la piramide, 1972). Eppure, noi non siamo mai dentro ad un effettivo schema che si gioca nel binomio mondo interiore-mondo esteriore in una dinamica simile a quella soggetto-oggetto o causa-effetto; piuttosto il tutto si presentifica alla nostra attenzione, istante dopo istante, in modo sfumato e mescolato, in un intreccio di reazioni che sorprendono e sconvolgono la nostra stessa idea di noi stessi, le certezze che, esperienza dopo esperienza, veniamo ad acquisire nei riguardi di noi stessi.

È in questa dinamica che si inserisce il gioco delle maschere che Conte riesce in modo magistrale a rendere. È nello spazio tra l’intuizione di chi siamo e il desiderio d’esser qualcosa d’altro che la matrioska della maschera prende forma stratificandosi, nell’attività di composizione e scomposizione per cui non si distingue più il nucleo originario dalla figura a cui questo vuole tendere, la destinazione dal punto di partenza, chi si vorrebbe essere da ciò che si è. E così, atto e potenza delle nostre identità si modificano essenzialmente, tanto da non distinguere davvero quale sia la faccia in prestito dalla faccia reale, la persona dalla maschera che non tanto indossa, quanto è.

Ciascuno è quel tale che vorrebbe una faccia prestata per apparire più comodamente a quel pubblico – ritenendo di non averne una sua – che tuttavia, nel mascheramento, lo riconosce in modo ancora più essenziale per ciò che è a prescindere da quella maschera indossata come fosse al carnevale, per ciò che si è rivelato durante la sua propria storia, per ciò: che il suo stesso desiderare una faccia diversa lo fa apparire travestito davanti a quel pubblico che lo riconosce travestito, restituendo a lui non tanto la sua spogliata identità, ma la sua identità di travestito, ribaltando così il suo individuale punto di partenza che lo riteneva uno smascherato che si maschera per comodità di apparire diverso. Una matrioska, per l’appunto.

A sublimare il quadro, nella seconda strofa fa capolino anche un grande elemento che nella storia della nostra identità è sovente presente: la nostalgia. Essa ci racconta il rapporto che noi abbiamo nei confronti di noi stessi circa il passato e il futuro, per cui da un lato guardiamo alla giovane età riplasmandoci secondo la lente della tenerezza, vedendoci così ingenui, ma belli e pieni di possibilità – che non abbiamo più nella coordinata temporale dal quale si guarda alla situazione giovanile; dall’altro, viviamo in un ottimismo tale per cui troviamo sempre gli aspetti sotto i quali noi, domani, saremo migliori di come siamo oggi. Mai paghi, mai definiti, mai ancora la versione migliore di noi stessi. D’altronde, l’etimologia non mente: perfetto vuol dire terminato, finito. Saremo letteralmente perfetti solo da morti, l’eccedenza è ciò che ci mantiene vivi.

Ma chi siamo, nel mentre, ora, adesso?

Nella storia della mia propria storia, sono io il mio più grande mistero per me stesso, che tento di sbrogliare una maschera alla volta, tentando di essere continuamente per me e per gli altri chi non sono mai stabilmente e capendolo solo attraverso l’esperienza delle maschere che tento di sovrappormi, come una prova infinita d’abiti che non mi stanno e che mi modificano tuttavia mano a mano che li provo – al punto da rischiare che la cosa più stabile nella mia esperienza umana diventi essere un grande indossatore d’abiti. Un falso d’autore, un’immagine ontologicamente vuota nel suo rimandare ad un contenuto altro da sé: nell’intersoggettività che prima di tutto io sono a me stesso ed in me stesso, il rischio è quello di andare a perdere l’originalità speciale che pure ciascuno di noi è, al fine di inseguire un’identità altra a tutti i costi, che ne svilisce l’autenticità che così faticosamente ma vivamente ricerchiamo.

L’antidoto c’è, prosaicamente: «Non piangere, coglione, ridi e vai».

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