In Perfect Days, la camera di Wim Wenders segue la vita di Hirayama ogni giorno, e noi che lo guardiamo di giorno in giorno ci carichiamo di aspettative. Nella prima giornata accettiamo che “non succeda niente”, pensando che si tratti di un’introduzione: prima conosciamo Hirayama, vediamo che vive a Tokyo, che si prende cura delle proprie piante, che ogni mattina gli piace bere il caffè in lattina, che lavora con grande dedizione alla pulizia delle toilette pubbliche della città, che ha un furgoncino colmo di cassette, che ama leggere e fotografare le foglie degli alberi contro il cielo. E tanto ci basta. Alla seconda alba già ci aspettiamo che qualcosa nella sua vita cambi, che abbia un imprevisto o faccia un incontro particolare. Che ci sia, insomma, un espediente di qualche tipo che movimenti la situazione e che getti le basi per lo sviluppo di una trama che immaginiamo procederà secondo uno schema più o meno vogleriano. E in effetti, mentre la sua vita si svolge sempre uguale, a Hirayama non sfuggono dettagli nuovi. Tracce, pensiamo, indizi che il regista getta qua e là perché torneranno in un secondo momento. Invece, ogni cosa ritorna, sì, ma sempre uguale a sé stessa, senza svilupparsi in modi che ci aspetteremmo, e il film si conclude senza che, apparentemente, sia stato fatto alcun passo avanti. Ci lascia in bocca una serie di innumerevoli “perché” da rivolgere al regista. Perché mostrare Hirayama mentre, nel parco, prende per mano un bambino, se poi quest’ultimo scompare completamente dalla sua vita e dalle scene? Perché indugiare più volte sulla ragazza che pranza nella panchina accanto alla sua, rispondendo con sguardi sospettosi ai suoi amichevoli, se poi non ci viene rivelato nulla su quella figura? Perché il suo giovane collega si licenzia di punto in bianco? Per quale motivo, a un certo punto, la nipote di Hirayama piomba a casa sua per restarci per qualche giorno? Intuiamo che Hirayama ha una sorella che fa una vita molto diversa dalla sua e con la quale non ha più alcun rapporto, ma non ne conosciamo le ragioni. E, mettiamoci il cuore in pace, non le conosceremo mai, perché dalla vita di Hirayama – o meglio: dalla vita che uno spettatore si aspetterebbe da un protagonista – il regista toglie moltissimo. Toglie avvenimenti percepibili come significativi, per presentarci delle giornate, nel complesso, tutte uguali. Toglie delle persone che siano davvero parte attiva e partecipe della sua vita. Certo, ci sono altri personaggi sulla scena, ma sono presenze lievi, che hanno una loro vita che si incrocia con la sua senza però esserne davvero parte integrante. C’è forse qualcuno di loro che si interessa davvero a Hirayama, che gli chieda come sta, che si sforzi in qualche modo di farlo uscire dal suo ruolo di spettatore empatico e delicato delle vite altrui? Wim Wenders non toglie solo l’azione, da Perfect Days, e nemmeno toglie solo una cornice, un contesto di cui lo spettatore si sentirebbe in diritto di sapere. Ci toglie soprattutto le domande fondamentali, ovvero i perché, rispondendovi con un’altra speculare, enorme domanda: di fronte a giorni perfetti nel senso di compiuti, che non lasciano alcun filo sfilacciante da una mezzanotte all’altra; di fronte a un’esistenza apparentemente fine a se stessa che sa però apprezzare e curare la vita, è così necessario chiedersi perché?
Se l’uomo non avesse bisogno di narrazioni, stereotipi ed esempi la trama potrebbe essere anche superflua, ma siamo così grandi da poter permetterci una vita contemplativa?