Metamorfosi e uso della paura

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Generoso Picone
Generoso Picone, Giornalista, Scrittore, autore di pubblicazioni storiche e di analisi sociale, studioso della letteratura italiana contemporanea.

C’è una spiegazione clinica che Massimo Recalcati ha dato del paradigma securitario, inteso come il meccanismo che fa della protezione dalle minacce il principio e dunque la guida per le azioni politiche in una società: «Nel paradigma securitario paranoia e melanconia si mescolano in modo nuovo dando vita a una inclinazione conservatrice, se non a un vero e proprio “desiderio fascista” fondato sull’introversione regressiva, sul ritiro sociale, sul porto chiuso e sul mito rinnovato dell’identità etnica e della gerarchia tra le razze», spiega in Le nuove malinconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno, il saggio pubblicato da Raffaello Cortina nel 2019. Lì utilizza il lessico psicanalitico e cita la pulsione securitaria per dire della tensione a trasformare il confine da luogo vitale di scambio a bastione, a filo spinato, a porto chiuso, a frontiera invalicabile: riportando così sulla scena della vita individuale e collettiva la sagoma perturbante della pulsione di morte che dopo Sigmund Freud la letteratura dell’inconscio avrebbe voluto ripudiare.

Se questo è, se ormai – ancora con le parole di Recalcati – «l’esigenza della protezione si confonde con una condizione di asservimento», occorre constatare che Roberto Escobar aveva visto giusto una ventina d’anni prima nel coniare, per la tormentata stagione che già si stava attraversando, la definizione di tempo delle Metamorfosi della paura, il titolo della riflessione consegnata al testo edito da Il Mulino nel 1997. Delineando l’immagine assai evocativa del Maelstrom – il gorgo dei Mari del Nord, «un abisso vorticoso aperto sul disordine» –, il filosofo della politica provava a collocarsi «alle radici di quello che diciamo umano» e individuava «una mai interrotta metamorfosi della paura: paura trasfigurata, capovolta in ordine e sicurezza, tenuta a stento entro confini che paiono ma non sono di pietra. Si tratta d’una costruzione, anzi d’un artificio grandioso, ma terribilmente precario. Ipotizzeremo che, per reggerne lo sforzo, gli uomini ricorrano a meccanismi crudeli che cercano di ridurre e domesticare la complessità indesiderabile del mondo». 

Quanto basta per comprendere che l’esaltazione della sicurezza come valore fondante di un governo della comunità costituisce l’approdo di un processo lungo, le cui origini sono  probabilmente ben antecedenti alle date dei contributi di Escobar e Recalcati. È un itinerario che l’istanza securitaria ha condotto – e sta conducendo – a partire dal dispositivo dell’affermazione prioritaria del tema della paura. Certo: un sentimento che si è insediato nel Novecento declinato nelle forme e nei profili di una estenuata crisi delle democrazie liberali. Da Gustave Le Bon a Ortega y Gasset, da Erich Fromm a René Girard, antropologi, filosofi, psicologi e sociologi hanno provato a decifrare il fenomeno che ha caratterizzato la società di massa e che ha assunto dimensioni estreme nel momento in cui la globalizzazione e il libero mercato non hanno mantenuto la loro promessa di felicità assoluta. Si è determinato così un clima di incertezza e di inquietudine che produce il bisogno – personale e collettivo – di essere e sentirsi al sicuro. Ricorrendo di nuovo a Massimo Recalcati, si potrebbe dire che la pulsione gregaria, finalizzata alla socializzazione e alla difesa della vita, è sfociata così nella pulsione securitaria: il soggetto si dichiara disponibile e pronto a barattare la propria libertà in cambio della sicurezza.

Ma per giungere a questo tipo di scambio – che soltanto vagamente allude ai contorni emersi dal Leviatano di Thomas Hobbes e alla teoresi fondativa del patto per la gestione politica nella comunità – l’individuo è stato condotto soltanto dall’onda crescente di una crisi destabilizzante? Oppure ha concorso a rendere dominante il paradigma securitario l’insediamento progressivo della retorica dell’assedio, del nemico, della minaccia quotidiana e onnipresente? La descrizione costante, minuziosa e assai spesso enfatizzata degli accadimenti, la loro narrazione troppe volte curvata a convenienze pure di linguaggio, il ritmo incalzante con cui le notizie vengono consegnate al pubblico manco fossero sequenze di un incessante serial televisivo: tutto ciò richiama la necessità di recuperare la lezione di Walter Lippmann e a ricordare quanto scriveva ne L’opinione pubblica in un lontano 1922 a proposito dell’”ambiente invisibile”.

È qui, nella camera virtuale dove si assemblano le idee che si riferiscono «a fatti che sono fuori dal campo visuale dell’individuo e che per di più sono difficili da comprendere», che le immagini trasmesse dai mezzi di comunicazione si delineano in una trama programmaticamente compatta. «Le immagini in base a cui agiscono gruppi di persone o di individui che agiscono in nome di gruppi, costituiscono l’Opinione Pubblica con le iniziali maiuscole», sottolinea Lippmann in un’affermazione che pronunciata più di un secolo conserva oggi assolutamente intatta la sua validità. «Cos’è la propaganda se non lo sforzo di modificare le immagini a cui reagiscono gli individui, di sostituire un ordine sociale a un altro?». Il giornalismo e la politica – una volta capisaldi della Democrazia, anche questa con la maiuscola – non si sono forse ridotti a propaganda?Nel tempo della paura – reale o rappresentata – nessuno può esimersi dal chiedere maggiore sicurezza. Succede, però, che i meccanismi del controllo, della sorveglianza e della punizione siano attivati anche a discapito dei diritti individuali e delle garanzie democratiche. Sorvegliare e punire aveva presagito Michel Foucault nel 1975 e nella dinamica che di conseguenza si articola emerge un aspetto di ulteriore allarme. Nel nuovo linguaggio del controllo, una semiotecnica dei segni punitivi  che dall’intuizione di Foucault è stata raffinata in disciplina prescrittiva, quanto viene percepito come proveniente dall’ambito intellettuale, dai luoghi della cultura e del pensiero, è valutato ostile fino a giustificare e legittimare l’applicazione della censura mediatica che – nell’epoca dei social – si consuma nei tribunali più incontrollati e feroci. È un’atmosfera di criminalizzazione politica, dove gli intellettuali sono additati simili ai traditori nascosti nelle cantine raffigurati  in una scienza a forte impatto simbolico da Paolo Escobar in Metamorfosi della paura: «Nella fortezza assediata dall’interno, nella città in cui molti avvelenano con le tenebre insidiose delle loro differenze la compattezza e la luce dell’uno, le cantine brulicanti di traditori: ognuno ne nasconde uno nella propria, ognuno ne sospetta uno in quella dell’altro».

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