Come restare qui?

Autore

Salvatore Tedesco
Salvatore Tedesco è docente di Estetica e Teoria dei linguaggi presso l'Università degli Studi di Palermo

Occorre davvero occuparsi di ciò che è volgare? Di fronte ai rubinetti e ai sanitari rivestiti d’oro del bagno di un boss mafioso, e ugualmente di fronte ai bacioni e agli spaghetti al sugo di un leader di partito, non sarebbe piuttosto il caso di volgere semplicemente lo sguardo altrove, rifiutare una concupiscentia oculorum che è già un’infezione che a partire dagli occhi intossica il corpo e la mente?

Ma forse questa domanda chiede e dice di più: l’ingordigia stessa con cui tali immagini una volta prodotte vengono consumate, reiterate, espulse e reimmesse in forme analoghe nella circolazione visiva e verbale, non dimostra in ultima analisi meglio dell’esercizio di qualsiasi critica che tali immagini – nella loro pervasività, nel loro continuo stare in mezzo a noi – sono perfettamente inassimilabili, e che dunque il disgusto che provoca ciò che è volgare, piuttosto che alla sfera della conoscenza o a quella etica, rinvia alla sfera dell’essere, rivela qualcosa della natura intima del volgare?

Se è vero che il bello “splende beato in sé”, il volgare luccica lasciando un alone untuoso attorno a sé. E dunque perché non voltarsi semplicemente altrove? Per quale motivo, forse, in altri tempi più sereni era possibile farlo, ma non è assolutamente possibile farlo adesso?

Forse esiste una sola risposta a questa domanda, ed è ancora questa una domanda: come restare qui, oggi?

Forse il volgare è la spia di un mutamento nel nostro rapporto con il tempo, la spia di una nostra attesa inespressa in altri linguaggi. Una attesa che il “bello”, il “politico”, sembrano non riuscire più a contenere.

Il volgare è “contento di sé”, non interroga il passato e non desidera il futuro; è famelico e suscita ingordigia, ma non è assimilabile ed attraversa i nostri intestini sino al suo esito immondo, ed allora ricomincia, intatto e intoccabile come tutto ciò che è ripugnante per essenza.

“Oggi per mia figlia pasta siciliana con ragù emiliano. Viva l’Italia”: non c’è oggi, non c’è figlia, non c’è Italia; non c’è uno sguardo che salvi ed ami il tempo passato, non c’è anticipazione e protensione verso un futuro da costruire, c’è solo un presente che non è affatto “oggi” perché non ha inizio, non riceve e non cede, non accoglie ma meramente segna di un alone di sé, prende possesso in modo effimero e si ripete.

Ma non è appunto questa la natura del tempo con cui ci confrontiamo? Dove individuare una luce che si protenda come una sonda nel futuro oppure che sappia il passato e ce ne porti il frutto? E dove il presente si darà in un’immagine che sia un simbolo che altri – in un altro tempo e da altri luoghi – possa riconoscere e salutare?

Il volgare è indubbiamente un simbolo contraffatto, un simbolo “a scadenza ravvicinata”; ma non ci dice qualcosa proprio il consumo ad ampia scala di tale contraffazione? Non ci dice qualcosa il modo con cui la volgarità trattiene il tempo, gli impedisce di scorrere, di essere tempo nuovo del nostro vivere? Al politico, giusto alla dimensione comunitaria della polis, si sostituisce l’idiota, letteralmente ed etimologicamente la glorificazione ed esposizione dello spazio privato nella sua chiusura.

La volgarità del nostro tempo è l’immagine rovesciata del bello, ma non lo sarebbe, e non sarebbe per noi decisiva, non sarebbe per noi ciò che più di tutto mette in allarme, se non ci portasse a guardare in faccia il modo esatto in cui noi stessi stiamo nel nostro tempo, anzitutto per il modo in cui il nostro tempo sta in rapporto a se stesso.

Forse il nostro tempo non conosce più la lanterna di poppa, che illumina solo le onde che ci siamo lasciati alle spalle, quella di cui parlava Coleridge, e certo ha difficoltà a pensare una lanterna di prua che illumini il futuro.

Uno dei più grandi poeti di oggi, Seamus Heaney, ha parlato della lanterna di biancospino:

Brucia fuori stagione il biancospino invernale,

mela degli spini, piccola luce per piccola gente,

che non vuole nulla di più da loro se non salvare

dall’estinzione il lucignolo della dignità,

senza doverli accecare d’illuminazione.
Forse oggi è questa “piccola luce” del self-respect (la dignità nella traduzione del testo originale di Heaney) che prende la forma itinerante di Diogene/con la sua lanterna quella che può insegnarci “come restare qui”; quella che può restituirci il bello, quella che ci può accompagnare, che può tornare a illuminare e dare calore fuori stagione al nostro presente, quella che custodisce ancora nel suo seme prezioso il passato e il futuro.

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