Se l’esistente non diventa resistente. Ricostruire la fiducia tra le generazioni. Intervista al demografo Alessandro Rosina

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Rosario Iaccarino
Rosario Iaccarino, nato a Napoli nel 1960, dal 1982 al 1987 ha lavorato come operaio presso la SIRAM, assumendo l’incarico di delegato sindacale della Fim Cisl; nel 1987 è entrato a far parte dello staff della Fim Cisl nazionale, prima come Responsabile dell’Ufficio Stampa e dal 2003 come Responsabile della Formazione sindacale. Cura i rapporti con le Università e con l’Associazionismo culturale e sociale con i quali la Fim Cisl è partner nei diversi progetti. Giornalista pubblicista dal 1990. È direttore responsabile della rivista Appunti di cultura e politica. E’ componente del Comitato Direttivo e del Comitato Scientifico dell’Associazione NExT (Nuova Economia per Tutti).

La questione della “fiducia” è un fattore molto importante nel rapporto tra le generazioni. Per tale ragione sorprende che nel linguaggio degli adulti spesso emerga una sorta di riserva nei confronti dei giovani,  che – si sente dire – sarebbero apatici e poco interessati alla dimensione pubblica e ai processi di trasformazione della cittadinanza, al punto da disertare l’impegno sociale e civile. Tende a prevalere verso le giovani generazioni un atteggiamento moralistico. Perché si fa così fatica a dare credito e spazio ai giovani?

Al centro del cambiamento sta il rinnovo generazionale: non viviamo in un mondo immobile abitato da esseri immortali. Il futuro non invecchia, allora, solo se diamo spazio al nuovo: se lo riconosciamo come valore e lo mettiamo nelle condizioni di generare nuovo valore in coerenza con le sfide del proprio tempo. Una comunità che non si preoccupa di questo, che non si occupa efficacemente di favorire tali condizioni, va incontro a un triste invecchiamento e declino. E l’Italia è uno dei paesi che maggiormente rischiano un tale destino, tanto più in un mondo sempre più complesso e in rapido cambiamento. L’impatto stesso della pandemia ha accentuato ulteriormente la complessità, ha aumentato l’incertezza nei confronti del futuro, ha fatto crescere la consapevolezza della necessità di mettere basi nuove ai processi di sviluppo e produzione di benessere comune. Quello che si è inceppato nel nostro paese è proprio la possibilità delle nuove generazioni di sentirsi parte attiva nei processi di produzione di nuovo benessere. Davanti al ruolo debole delle nuove generazioni italiane nei processi di cambiamento del paese c’è prima di tutto un deficit di riconoscimento del loro ruolo. Il “nuovo” che i giovani rappresentano va capito ancor prima che giudicato. Va aiutato e incoraggiato ad emergere, a conquistare consapevolezza di ciò che può diventare, a raffinarsi e trarre il meglio di sé.

Leggendo alcune sue considerazioni sul Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo¹, da lei curato, emerge una fotografia dei giovani connotata diversamente rispetto agli stereotipi ricorrenti. Lei scrive, parlando degli under 25, di una generazione sensibile ai temi dell’ambiente e a condotte più attente al benessere sociale, che predilige una partecipazione poco guidata da ideologie, capace di entusiasmo se coinvolta ed esposta a demotivazione quando non vi è riscontro del proprio impegno.

Se c’è un tema in grado oggi di mettere in relazione virtuosa sensibilità e valori dei giovani con le questioni aperte del nostro tempo, con alto potenziale innovativo sui modelli di produzione e consumo, è proprio quello ambientale, della promozione della salute e della salvaguardia della bellezza della biodiversità del pianeta. Sono oramai molti e consistenti i dati che forniscono evidenza empirica del consolidamento di un atteggiamento particolarmente attento verso pratiche e politiche di sviluppo sostenibile, che va aiutato però a trovare maggiore consapevolezza e strumenti per esprimersi. Nelle nuove generazioni, più che nelle precedenti, c’è l’idea del pianeta come casa comune e del patrimonio naturale come bene comune, assieme alla voglia di uscire dalla gabbia del presente e di reagire al rischio di essere una generazione perdente (che subisce passivamente le trasformazioni del proprio tempo) per passare ad una idea positiva di futuro da realizzare con il proprio impegno e in coerenza con proprie aspettative e sensibilità. 

Nel suo ultimo libro dedicato alla crisi demografica², lei svolge un’analisi puntuale quanto severa sull’impatto sociale della pandemia nel nostro paese, evidenziando il doppio effetto negativo – soggettivo e oggettivo – che si è prodotto: nella crisi i giovani (insieme alle donne) hanno pagato (ancora una volta, ndr), il prezzo più alto. Conseguenze che se da un lato inaspriscono le condizioni di vita e ritardano la transizione all’età adulta dei giovani, dall’altro, rimettono anche in discussione progetti di vita che vanno a incidere sul tasso di fertilità del nostro paese, con le relative criticità per l’insieme della società. 

Ciò che distingue il nostro dagli altri paesi non è un maggior disinteresse a formare una famiglia, ma le condizioni del processo decisionale e le difficoltà a rendere l’avere un figlio una scelta di successo. Nelle società del passato le persone comunemente non si ponevano la questione del “quando” avere una gravidanza e a “quanti” bambini fermarsi, semplicemente si formava una unione di coppia e di figli ne arrivavano quanti ne arrivavano. Oggi, per la maggioranza delle persone, avere figli è sempre meno una scelta scontata, ma si realizza come espressione concreta di un desiderio (di sentirsi parte attiva di un mondo che continua dopo di sé) che deve trovare le condizioni adatte per potersi pienamente realizzare. Più che in passato è necessario, allora, che sia in primo luogo favorita e sostenuta da una attribuzione esplicita di valore nella comunità di riferimento in coerenza con condizioni oggettive che consentano una integrazione positiva con le varie dimensioni della realizzazione personale e professionale. 

Va inoltre considerato che sfiducia e insicurezza – sovrapponendosi alle fragilità preesistenti – quando scendono in profondità, possono indebolire tutto il processo decisionale. È quanto accaduto dopo gli anni acuti della recessione del 2008-13 e successivi che ha portato ad un continuo avvitamento verso il basso delle nascite fino, appunto, all’impatto con la pandemia e le sue conseguenze.

La natalità è l’indicatore più sensibile, nei paesi più avanzati, alle condizioni oggettive del presente e alle prospettive future. Nei contesti caratterizzati da fiducia e aspettative positive, chi desidera avere un figlio più facilmente può realizzare tale scelta, aumenta la presenza di giovani e si rafforza il loro contributo allo sviluppo sostenibile. Dove invece le famiglie si sentono sole, si riduce la scelta di avere un figlio e si accentuano gli squilibri demografici.

La realtà con la quale fanno i conti i giovani nel nostro paese, costretti a mille peripezie e acrobazie per trovare una strada per la realizzazione di sé, è un indicatore della scarsa considerazione e attenzione che hanno di loro le generazioni adulte. Non dovrebbe perciò meravigliare un atteggiamento di scettiscismo e di sfiducia dei giovani verso la politica, se questa è più sensibile alle domande di gruppi e ceti sociali garantiti e che hanno anche un maggiore peso elettorale.

La forza debole delle nuove generazioni è una conseguenza della debolezza demografica, ma anche della difficoltà di formarsi bene per orientarsi meglio nella complessità crescente delle società moderne avanzate, con strumenti all’altezza per poterla migliorare e per poter contare attraverso le scelte collettive.

In particolare, i giovani italiani non sono disinteressati alla politica: vorrebbero anzi poter contare di più e auspicano una maggiore attenzione al bene comune. Sono però molto diffidenti rispetto alla classe politica che hanno sperimentato alla guida del paese nel loro percorso di transizione scuola-lavoro e nell’entrata alla vita adulta. Le ricerche dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo mostrano come si sia nel tempo consolidato nei giovani un atteggiamento critico rispetto alla classe dirigente e in particolare verso quella politica, alla quale viene imputata la principale responsabilità della combinazione tra bassi tassi di crescita del paese, bassi tassi di occupazione giovanile, bassa valorizzazione del capitale umano, bassa mobilità sociale.

Nelle valutazioni sul grado di fiducia rispetto alle istituzioni i partiti si posizionano all’ultimo posto. Serve quindi una politica diversa, perché l’approccio finora utilizzato è stato fallimentare dal punto di vista dell’efficacia. Va colta la discontinuità della pandemia per iniziare davvero una fase diversa del paese, con la consapevolezza che solo il cambiamento che trova il consenso delle nuove generazioni e le mette nelle condizioni di mettersi in sintonia con le opportunità del proprio tempo può aver successo.

Si parla frequentemente, anche abusando delle parole, di un patto intergenerazionale per allargare la cittadinanza nella direzione della sostenibilità sociale, economica e ambientale. E’ tuttavia difficile immaginare che senza una redistribuzione di risorse e opportunità, dalle generazioni adulte a quelle più giovani, ciò possa accadere. Se solo si pensa ai ritardi nel governo della transizione ecologica, emerge drammaticamente quale costo potrebbero pagare le giovani generazioni, addirittura in termini di sopravvivenza. La fiducia, a mio avviso, si può ricostruire se vengono promosse azioni politiche improntate alla conservazione del pianeta, alla giustizia sociale e alla lotta alle disuguaglianze. Cosa suggerisce perché si possa andare in questa direzione?

Va aiutata a crescere la consapevolezza che l’impegno ambientale, in combinazione con quello della giustizia sociale, possa essere sperimentato come parte di un laboratorio di cittadinanza attiva e di coscienza civica che aiuti a promuovere un modello più inclusivo in coerenza con un modello di sviluppo sostenibile.

Le nuove generazioni sentono il bisogno di sperimentarsi e di produrre un proprio impatto riconoscibile nella realtà che li circonda, più di quanto riescano oggi nei fatti ad esprimere. La richiesta da parte dei giovani è che chi oggi ha il potere si impegni maggiormente a migliorare le condizioni dei cittadini, delle nuove generazioni e del contesto sociale e naturale in cui vivono. Ma è crescente la convinzione che serva anche una spinta dal basso, che nessun vero miglioramento sia possibile senza un protagonismo attivo dei cittadini e in particolare dei giovani. In conclusione, domanda e offerta di partecipazione, assieme ai meccanismi di valido incontro, devono entrambe essere ripensate se vogliamo che i giovani diventino veri attori positivi del cambiamento in questo paese.

Il cambiamento può allora diventare miglioramento attraverso il protagonismo giovanile solo se l’esistente non diventa resistente, se accetta di farsi mettere in discussione da nuovi sguardi. Se consente ad energie ed intelligenze nuove di trovare spazio e strumenti per essere all’altezza dei propri desideri e delle proprie potenzialità. L’investimento sulle nuove generazioni richiede generosità e intelligenza, perché ha bisogno di risorse economiche e intellettuali, ma richiede soprattutto il riconoscimento che ciò che migliora la capacità di essere e fare dei giovani aumenta in prospettiva il benessere di tutti.

Alessandro Rosina è docente universitario e saggista. E’ professore ordinario di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, dove è anche Direttore del centro di ricerca LSA (Laboratorio di statistica applicata alle decisioni economico aziendali). Studia le trasformazioni demografiche, i mutamenti  sociali, la diffusione di comportamenti innovativi. Inotre è Presidente dell’associazione InnovarexIncludere, tra i fondatori della rivista online Neodemos; coordina la realizzazione della principale indagine italiana sulle nuove generazioni (“Rapporto giovani” dell’Istituto G. Toniolo).

Attualmente è membro del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia e coordinatore del Gruppo di esperti su “Demografia e Covid-19”. Ha al suo attivo molte pubblicazioni scientifiche e divulgative. Tra i libri più recenti “Non è un paese per giovani. L’anomalia italiana: una generazione senza voce“, (con E. Ambrosi, Marsilio, 2009), ”Famiglie sole. Sopravvivere con un welfare inefficiente”, (con D.Del Boca, Il Mulino, 2009),  “Goodbye Malthus. Il futuro della popolazione: dalla crescita della quantità alla qualità della crescita”, (con M.L. Tanturri, Rubbettino editore, 2011), “L’Italia che non cresce. Gli alibi di un paese immobile” (Laterza, 2013), “Demografia” (con A.De Rose, Egea), “Il futuro non invecchia” (Vita e Pensiero 2018). E’ editorialista per il Sole 24 Ore, scrive e ha scritto inoltre per varie testate nazionali (la Repubblica, L’Avvenire, Il Messaggero, Il Mattino, Il Giorno) e riviste politico culturali (Il Mulino, Vita e Pensiero, ItalianiEuropei, Le Scienze).

¹ https://www.alessandrorosina.it/tag/istituto-toniolo/

² A. Rosina, Crisi Demografica, politiche per un paese che ha smesso di crescere, Vita e Pensiero, 2021

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1 commento

  1. Buonasera.
    C’è il cambiamento, lo stiamo vivendo già oggi. Ma ovviamente dobbiamo fare ancora molto. Il paese ha buone prospettive.

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