Impressioni di Dicembre

Autore

Aurora Martinelli
Aurora Martinelli, nata nel 1998, dopo gli studi classici ha conseguito una Laurea Triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Padova con una tesi dal titolo “La lunga liberazione. La questione della specificità femminile nelle esperienze post Olocausto” con la professoressa Enrica Asquer. Attualmente sta studiando Graphic Design presso la Libera Accademia di Belle Arti di Rovereto e contemporaneamente porta avanti gli studi nell’ambito della Laurea Magistrale in Scienze Storiche sempre presso l’Ateneo di Padova, mossa dal desiderio di unire le due anime e lavorare nel campo della comunicazione culturale. Da qualche anno collabora con la Fondazione Trentina Alcide De Gasperi, sia come guida museale, sia come formatrice nei percorsi didattici proposti dalla fondazione alle scuole del Trentino.

Scrivo queste righe pochi giorni dopo aver partecipato, per la prima volta, ad un simposio. Immaginavo che fosse ingenuo pensare che questo termine, estratto dai tempi antichi e riversato sull’oggi, avesse la stessa forma che aveva in origine. Non mi aspettavo certamente che ci saremmo radunati attorno ad un tavolo, mangiando, bevendo e discutendo pariteticamente di questioni alte. La situazione che mi prefiguravo era decisamente più ordinata e composta, con un palco, e quindi una distinzione tra parlanti e ascoltatori, dei microfoni, delle bottiglie d’acqua schierate per i relatori che, alternandosi, avrebbero condiviso un po’ delle loro esperienze e conoscenze cercando di convergere verso un’analoga direzione. Certo, ci sarebbe stato tanto spazio per le domande, in una cornice però più vicina ad una lezione universitaria che ad un aperitivo tra amici. E in effetti è stato così: ho imparato tanto, ascoltando.

Eppure, se ripenso all’impressione (leggi: ciò che è rimasto impresso) di quei due giorni, per buona parte riaffiorano sì i concetti caduti dal palco, ma questi vanno a mescolarsi con quei piccoli scambi avuti nei momenti più propriamente conviviali – la cena insieme, il vino dopo la conclusione della prima serata, la colazione in albergo il mattino dopo. Il valore di queste occasioni non è stato inferiore a quello delle fasi più strutturate del simposio, e a tale proposito è sorta una domanda: perché condividere una tavola con qualcuno può essere un’esperienza così significativa? C’è qualcosa, oltre al puro piacere della compagnia reciproca, che ci spinge a cercare e creare delle occasioni di questo tipo? 

Non ho inquadrato bene la questione finché, rientrata a casa, non ho passato in rassegna i vari contributi di questo numero di Passion&Linguaggi, che sulla convivialità ci raccontano cose sorprendenti eppure estremamente concrete e comuni alle esperienze quotidiane di ciascuno e ciascuna di noi.
Giuliano Castigliego ci fa notare innanzitutto che quando un essere umano viene al mondo, è totalmente dipendente dal nutrimento e dall’affetto di qualcun altro e che quindi, di fatto, la convivialità è la dimensione in cui si inquadra la nostra prima esperienza nel mondo. Una sorta di imprinting da cui non possiamo svincolarci e che ci accompagna per tutta la vita. In questo, siamo davvero tutti uguali. Lo stesso gesto di sedersi a tavola insieme ad altri ci ricorda che il nostro bisogno di nutrirci è lo stesso degli altri, e questo monito si è sedimentato persino a livello semantico: come sottolinea Carlo Pacher, in alcune lingue c’è un trasferimento di termini dalla sfera alimentare al concetto di fratellanza.
Ecco che quindi, al di là del bisogno fisiologico di nutrirsi, la condivisione di un pasto è il nucleo d’origine di scambi: domande di senso, confronti e discussioni costituiscono il carburante che tiene in vita la conoscenza da un lato – la quale non esisterebbe senza un movimento dell’individuo verso l’altro, né senza la disponibilità a mettere in dubbio le proprie convinzioni e sviscerarle reciprocamente – e l’azione politica dall’altro – la quale si innesta proprio sulla messa in discussione degli assetti esistenti in un’ottica migliorativa e su cui il contributo di Ugo Morelli si concentra particolarmente. 

Tanto è evidente la dimensione relazionale/sociale della convivialità, quanto sono affascinanti, invece, gli echi che essa può attivare nella dimensione individuale. Maria Luisa Bigai riflette su quanto i momenti di convivialità siano a tutti gli effetti dei rituali, sacri, che spezzano la quotidianità restituendoci un significato autentico dello scorrere del tempo ed esorcizzando il fantasma della morte. In quest’ottica, più che le grandi tavolate da spot pubblicitario, sono i piccoli e banali gesti come la condivisione di un caffè a costituire un potenziale momento catartico, come ci racconta l’esperienza di Castigliego e a cui, senza saperlo, si collega la riflessione poetica di Biancaneve, la quale in maniera delicatissima ci accompagna a guardare un lato più difficilmente maneggevole. Darsi a momenti di convivialità e scambio significa anche accettare di esporsi e consegnare ad altri delle parti di noi, operazione che richiede uno sforzo di fiducia. In se stessi, e negli altri. Più che con un augurio, nel mese di Natale concludo questo editoriale con un invito a creare occasioni di convivialità autentica, che vada oltre il sacrosanto piacere del buon cibo, e a fare caso a quanto – e a lasciare che – quelle impressioni e quegli scambi possano fare la differenza nella vita di ciascuno di noi.

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