Joe Cares

Autore

Aurora Martinelli
Aurora Martinelli, nata nel 1998, dopo gli studi classici ha conseguito una Laurea Triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Padova con una tesi dal titolo “La lunga liberazione. La questione della specificità femminile nelle esperienze post Olocausto” con la professoressa Enrica Asquer. Contenta, ma non abbastanza, ha conseguito un'altra laurea in Graphic Design presso la LABA di Rovereto con una tesi di progetto dal titolo "Sfumature. Interazione tra podcast e comunicazione visiva in un progetto di divulgazione storica" col prof. Matteo Carboni. Mossa dal desiderio di unire l'anima storica e quella grafica e lavorare nel campo della comunicazione culturale, attualmente si muove tra Trento, dove collabora con la Fondazione Trentina Alcide De Gasperi e con lo Studio di Davide Dorigatti, e Bologna, dove lavora per Un Altro Studio.

La monetina stava appoggiata sul tavolo di fronte a Joe, che la guardava. Ci perdeva le ore, ultimamente, con quella monetina. Seduto al bordo del letto, abbassava e inclinava la testa quel tanto che bastava perché si formasse una linea perpendicolare al pavimento tra il suo sguardo e quel piatto oggetto metallico. Gli piaceva quella prospettiva perché gli sembrava un’inquadratura da film. Se fosse stato un regista ci avrebbe potuto girare un capolavoro sulla storia di quella monetina, e probabilmente proprio quell’inquadratura le avrebbe dato il LA. La vedeva già: l’obiettivo della telecamera all’altezza del tavolo, a una spanna di distanza, la moneta a fuoco e lo sfondo sfocato – era sicuro che ci fosse un termine tecnico per indicare questo magheggio, ma non lo conosceva –, una voce fuori campo che drammaticamente apriva l’opera. Davvero un capolavoro. Peccato che non ci fossero registi, attori o luci di scena nella sua vita e la storia di come si era procurato la moneta la poteva raccontare solo a sé stesso e alle persone che di tanto in tanto passavano a trovarlo. Non erano molte, ma qualche volta erano proprio loro a chiedergli di poterla ascoltare, e quando succedeva gli faceva molto piacere. Si sistemava il colletto della camicia, si lisciava i pantaloni, si dava una sistemata ai radi capelli. Si agitava persino un po’, perché sapeva che quella era una storia importante, anche se era iniziata nella maniera più banale di tutte, così come iniziavano tutte le sue banali giornate.

Scendere le scale del suo condominio era una faccenda difficile: lo spazio scarseggiava in larghezza, e doveva fare mille manovre per riuscire a svoltare tutti gli angoli senza che il suo cartellone di legno sbattesse o strisciasse contro il muro. Una volta aveva persino lasciato una traccia di vernice gialla sull’intonaco, e la padrona dello stabile si era arrabbiata tantissimo. Come se non vedesse che tutto, in quel posto, era già, come dire, occupato da qualche segno del tempo, o del fumo degli altri inquilini, o del cibo rovesciato dai bambini distratti. Quella mattina era stata ancora più dura la questione, perché aveva incrociato la signora del terzo piano che stava salendo, e si era dovuto appiattire contro la parete per non darle fastidio. Non era servito a nulla: la signora era passata senza problemi, eppure al suo cordiale ed entusiasta “buon giorno!” aveva risposto con uno sguardo carico di nervosismo, per poi proseguire a trascinare i piedi su per le scale borbottando qualcosa contro di lui. Succedeva spesso che la gente se la prendesse con Joe e che lui non ne capisse il motivo. Forse, pensava, era per via del suo aspetto: il suo lavoro gli imponeva di truccarsi pesantemente, di indossare parrucche colorate, ma soprattutto di piazzarsi una palla rossa sopra il naso. Poteva quindi comprendere che non a tutti facesse piacere trovarsi di fronte, alle 7 del mattino, un personaggio così conciato. Ad ogni modo, non poteva farci niente. In fin dei conti, pensava, quando saliva sulla metropolitana tutte le persone indossavano una qualche divisa, per lavoro o per posizione sociale. Che cosa c’era di così concettualmente diverso tra il mocassino del banchiere e le sue scarpe di 8 numeri più grandi rispetto al suo piede? Tra il rossetto dell’avvocata e il suo sorriso dipinto a collegare una basetta con l’altra? Navigava spesso tra questi pensieri, e la sua mente diventava più affollata del vagone della metro che dalla periferia lo portava verso il centro città. Doveva stare attento se non voleva sbagliare la fermata. Quella mattina per fortuna non era successo, e dopo essere sceso aveva iniziato, come sempre, a sfilare lungo la strada controllando nelle vetrine che il trucco fosse ancora al suo posto. Camminava su e giù, una particella lenta nella folla affrettata, che cercava coi suoi cartelli ottimisti e coi suoi oggetti stravaganti di spargere un po’ di buon umore. Sapeva benissimo che la mattina era un momento critico per le persone: molte di loro avrebbero affrontato una giornata difficile, densa di impegni, riunioni, telefonate, disguidi e screzi coi colleghi. Lui invece, esente da certe dinamiche, pensava che a queste persone facesse piacere incontrare qualcuno per strada con un sorriso e una sciocchezza in mano che potesse infondere un po’ di motivazione. Fosse stato dall’altra parte, lui lo avrebbe apprezzato. Che cosa chiedeva in cambio? Nulla, solo una risposta – gli bastava un cenno cortese della testa per essere soddisfatto – e magari, sì, una monetina, visto che quello era di fatto il suo lavoro. Ma che cos’era, in fondo, una monetina per chi lavorava in centro e guadagnava per 10 ore al giorno? Ad esempio, era sicuro che per quell’uomo col completo grigio tortora che usciva elegantissimo dal bar tutte le mattine con un paio di borse portate da due persone ai suoi fianchi, una monetina non significasse proprio nulla. Era questo il motivo per cui, quasi tutti i giorni, quest’uomo gli si avvicinava e le monete gliele lanciava proprio addosso, esattamente come si fa con (o forse contro?) una cosa che ti infastidisce e ti vuoi togliere di torno. Anche quella mattina, Joe lo aveva visto arrivare. Come succedeva ultimamente, quell’uomo oltre a lanciargli le monetine addirittura gli aveva parlato. Come se lo conoscesse personalmente, gli diceva cose riguardo alla sua effimera esistenza, al fatto che quello del clown non fosse un vero lavoro, che avrebbe fatto meglio ad andare a rifugiarsi sotto un ponte, che doveva vergognarsi, che erano quelli come lui a corrodere e rovinare la società, che il capitalismo era un sistema perfetto e che se uno nella vita non riusciva a raggiungere una buona posizione l’unica spiegazione valida era che fosse o un malato, o un fallito, o tutt’e due le cose.

Joe, in quei momenti, cercava di non pensarci. Isolandosi continuava a sorridere – d’altronde, aveva il sorriso letteralmente dipinto sulla faccia. Incassava, inghiottiva, cercava di ripetersi che non era vero, e che i suoi sforzi di entrare a far parte della società erano sempre stati onesti, e che quest’uomo aveva solamente una giornata pesante davanti ed era stressato per i fatti suoi. Ma le parole di quell’uomo andavano ad accumularsi con tutte le altre, così simili, che si era sentito dire nella vita e il suo disprezzo incravattato si andava a sommare a tutto quello che gli era sempre stato rivolto nella vita, andando, come le monetine sparse ai suoi piedi, ad aumentare il mucchietto dell’amore che non aveva e non avrebbe mai ricevuto. Per quanto si sforzasse con l’arma della gentilezza, non riusciva mai a smettere di sentirsi il residuo della minestra che si raffredda sul bordo del piatto e che nessuno vuole più mangiare, e questo lo faceva stare male, male, male, male.

Quel giorno fu particolarmente fiero di sé stesso, perché era riuscito a isolarsi così tanto da non ricordare più che cosa fosse successo dopo. Ricordava però nitidamente di essere tornato a casa, di avere rovesciato sul tavolo le monetine racimolate quel giorno e di averne notata una diversa da tutte le altre. Innanzitutto era ovale, non perfettamente tonda, e per la verità non era nemmeno una moneta. Sopra c’era inciso il profilo di una città e sotto c’era scritto “Berlino”. Joe sorrise immaginandosi quell’uomo così ricco ed elegante, ben vestito, in vacanza – magari in bermuda, con una moglie in infradito e dei figli coi gelati colati giù per le magliette -, a inserire in una di quelle macchinette per turisti un centesimo di rame, che poi viene risputato fuori con incisa una cartolina solida e miniaturizzata della lieta località in questione. Chissà che cosa aveva visitato quell’uomo, che cosa aveva mangiato e in quale albergo aveva dormito. Chissà a quali importanti e preziosi ricordi quella moneta era legata. Forse sarebbe stato meglio restituirla al suo proprietario? Tenersela equivaleva a rubare un pezzo della sua vita, e questo per Joe era eccitante, ma ancora di più era spaventoso. Decisamente, avrebbe fatto meglio a restituire la moneta. Eppure, non sapeva come fare. Da quel giorno non ricordava più perfettamente il volto dell’uomo, e nemmeno era sicuro che il suo completo fosse davvero color grigio tortora. E i suoi portaborse erano due, o di più? O forse se li era immaginati? Era così confuso. Ultimamente gli capitava spesso di sentirsi così, smarrito tra i ricordi e l’immaginazione.

Altre volte, invece, c’erano dei momenti in cui tornava perfettamente lucido. Anche se non ricordava i dettagli, dentro di sé lo sapeva che quella mattina, dopo che l’uomo aveva finito di insultarlo lo aveva inseguito. Avevano corso allontanandosi dal centro, nei vicoli via via più stretti dei quartieri di periferia, e Joe ricordava di aver provato una certa soddisfazione nel constatare che le sue scarpe di 8 numeri più grandi rispetto al suo piede avevano battuto i mocassini dell’incravattato 1 a 0. Lo aveva raggiunto e poi chissà, doveva avergli fatto male, male, male, male. Per questo ora si trovava in una cella, stretto tra il letto e il tavolo, con le persone che di tanto in tanto gli chiedevano di raccontare questa storia, e sempre con questa monetina, che voleva, a tutti i costi, restituire al suo proprietario. Perché Joe ci teneva. Perché Joe era una persona onesta.

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