Dalla Luna

Autore

Aurora Martinelli
Aurora Martinelli, nata nel 1998, dopo gli studi classici ha conseguito una Laurea Triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Padova con una tesi dal titolo “La lunga liberazione. La questione della specificità femminile nelle esperienze post Olocausto” con la professoressa Enrica Asquer. Contenta, ma non abbastanza, ha conseguito un'altra laurea in Graphic Design presso la LABA di Rovereto con una tesi di progetto dal titolo "Sfumature. Interazione tra podcast e comunicazione visiva in un progetto di divulgazione storica" col prof. Matteo Carboni. Mossa dal desiderio di unire l'anima storica e quella grafica e lavorare nel campo della comunicazione culturale, attualmente si muove tra Trento, dove collabora con la Fondazione Trentina Alcide De Gasperi e con lo Studio di Davide Dorigatti, e Bologna, dove lavora per Un Altro Studio.

L’Orlando descritto da Ariosto diventa furioso per amore. Vede attorno a sé le evidenze del fatto che il suo amore per Angelica non è corrisposto – e le vede in un bosco, in una miriade di alberi sul cui tronco sono incisi i nomi di Angelica e Medoro, pratica evidentemente resistente ai secoli – eppure inizialmente non ci vuole credere. Inanella tutti gli alibi possibili per convincersi che queste tracce non siano autentiche, che Angelica le abbia seminate in giro solamente per farlo ingelosire. Ma poi arriva la conferma schiacciante, questa volta nelle vesti del pastore a cui Orlando chiede ospitalità per la notte. Ignaro e ingenuo, il pastore gli racconta della dolce coppia che aveva ospitato nella sua fattoria poco tempo prima di lui: sono proprio Angelica e Medoro.

Ritiratosi nella sua stanza, Orlando sente il letto «più duro ch’un sasso, e più pungente / che se fosse d’urtica», realizzando «che nel medesimo letto in che giaceva, / l’ingrata donna venutasi a porre / col suo druido più volte esser doveva» (Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XXIII, 123). 

A quel punto, Orlando cede alla pazzia. Il racconto del pastore è l’inflazionata goccia che fa traboccare il vaso o, per usare le parole di Ariosto, è «[…] la secure / che ‘l capo a un colpo gli levò dal collo, / poi che d’innumerabil battiture / si vide il manigoldo Amor satollo» (ivi, XXIII, 121). Orlando, insomma, perde la testa. Fugge rabbiosamente dalla fattoria, vaga per i boschi in preda al massimo picco della sua follia distruttiva. Fa scempio di quel locus amoenus che aveva fatto da cornice alla passione di Angelica e Medoro. Recide rami e tronchi, getta sassi nelle acque limpide del fiume, sfigura le pareti della grotta su cui Medoro aveva inciso una sorta di lode a ringraziamento «del gran piacere che ne la grotta prese» (ivi, XXIII, 107). Dopo lo sfogo sopraggiunge lo sfinimento, un’apatia che lo spinge a sdraiarsi sul terreno erboso del bosco e restar lì, immobile e a digiuno per giorni. Il problema è che lo strazio di Orlando non è solo una questione personale: Orlando stava combattendo nella guerra contro «i Mori» e il suo contributo è fondamentale. Senza di lui, non può esserci vittoria per l’esercito cristiano.

Ecco che nel XXXIV canto entra in primo piano la figura di Astolfo, paladino chiamato a risolvere la situazione volando sulla Luna. Per quale motivo? Perché sulla Luna va a finire tutto ciò che viene perduto sulla Terra: «ciò che si perde o per nostro diffetto, / o per colpa di tempo o di Fortuna: / ciò che si perde qui, là si raguna» (ivi, XXXIV, 73). La missione di Astolfo è quella di recuperare la boccetta contenente il senno perduto di Orlando, un «liquor suttile e molle», riconsegnarglielo e così, rinsavito dalla sua follia d’amore, ricondurlo ai suoi doveri di combattente. Il punto davvero focale di questa vicenda – e il vero motivo per cui ci interessa in questa sede – è che questo astronauta ante litteram, pur compiendo la propria missione in maniera precisa e mirata, si lascia per qualche verso abbandonare a uno stupore che è enorme di fronte a tutto ciò che, scopre Astolfo, sulla Terra viene perduto, o diventa vano, senza che nessuno se ne accorga. La fama, il tempo, le preghiere, i desideri mai realizzati, la memoria di popolazioni antiche. Il senno, appunto, la ragione di uomini che Astolfo riteneva saggi. Persino il proprio. Tutto perduto sulla Terra, tutto finito sulla Luna. La lista sarebbe infinita, ma a colpire Astolfo è soprattutto ciò che sulla Luna non c’è: la pazzia. Quella sta tutta sulla Terra. «Lungo sarà, se tutte in verso ordisco / le cose che gli fur quivi dimostre; / che dopo mille e mille io non finisco, / e vi son tutte l’occurrenze nostre: / sol la pazzia non v’è poca né assai; / che sta qua giù, né se ne parte mai (ivi, XXXIV, 81)». 

Una delle prime cose che Astolfo aveva notato sbarcando sulla Luna era che la Terra da lì non si vede, è troppo buio. Eppure, è proprio sulla Luna che Astolfo riesce a vedere e capire molte cose riguardo alla Terra e la sua complessità, al modo in cui l’abitiamo e in cui agiamo in essa. Serviva un punto di vista più lontano e distaccato per riuscire ad analizzare in maniera più lucida e disincantata la Terra. 

E se è vero che la pazzia sta tutta sulla Terra, ciò che ci proponiamo di fare in questo numero di Passion&Linguaggi è proprio di “essere la Luna”, di porci come un punto di osservazione sul tema della follia che cerchi di abbracciarne la superficie vasta, varia e disomogenea così come vasta, varia e disomogenea è la superficie terrestre. Cercare di metterne a fuoco la complessità significa partire dalla doppia natura di questo concetto, che si declina talvolta in senso distruttivo (si veda la furia di Orlando), talvolta in senso creativo, come dimostra il successo dell’immagine dell’artista o genio folle che Antonino Pennisi mette in discussione attraverso le parole di Alda Merini e che Roberto Conte recupera attribuendo all’artista, come al folle, la capacità di vedere l’invisibile e tracciare delle strade apparentemente superflue ma in verità necessarie. 

Dualismo che si rintraccia anche nelle manifestazioni della follia, che può da un lato risultare in un eccesso di attività, gonfiato e spettacolarizzato, come sottolinea Lavinia Mainardi a proposito della stagione freudiana, e che Chiara De Pol rintraccia nell’attualità, in quei folli tentativi digitali di restituire voce e volto alle persone defunte, incuneando la frenesia dei vivi nel mondo dei morti e negando loro quell’«eterno riposo» altrove invocato. Follia che, dall’altra parte, sta però anche nella passività, che può sfociare nell’annientamento del pensiero, nota Paolo Fedrigotti, o in un ottundimento che ci porta, come l’Orlando stremato e steso a terra per giorni, a non indignarci più di fronte alla violazione dei diritti nostri, come Ugo Morelli e Gianpaolo Carbonetto gridano dalle loro righe, e di chi ci succederà, come sottolinea l’articolata riflessione di Andrea Donegà. La follia, insomma, si colloca in una «regione scomoda», a metà tra la ragione e la non-ragione, tra l’azione e la subordinazione, come fa notare Maria Inglese, risultando quindi, seguendo la strada su cui Carlo Pacher ci conduce, un concetto talmente sfuggente da essere vuoto. 

Può disorientare, può inquietare, può lasciarci nell’afasia. Di sicuro, però, ragionare sulla follia può portarci a guardarla sotto una prospettiva diversa: come Rosario Iaccarino mette in luce grazie al suo dialogo con Lamberto Maffei, la si può cogliere come una chiave per “rompere la cornice”. Per Astolfo, la pazzia di Orlando è stato il pretesto per fare un viaggio spaziale e guardare il mondo in modo diverso: e allora che possa essere anche per noi l’opportunità per aprire strade nuove e cambiare questo folle presente.  

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