Attese umanizzanti. Il gioco degli scacchi nell’ottica di una sociologia dell’attesa.

Autore

Emanuele Pulvirenti
Emanuele Pulvirenti (Catania, 1988), dopo gli studi classici tra Catania e Strasburgo, ha conseguito un dottorato in Studi umanistici presso l’Università di Trento, con una tesi sui contatti culturali in guerra tra Greci e Persiani. È stato docente a contratto di storia greca presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia di Trento, dove attualmente è cultore della materia, collabora con il LabSA e ha in pubblicazione diversi contributi scientifici. Insegna italiano e latino presso il Liceo Classico Andrea Maffei di Riva del Garda. Nel tempo libero si dedica al gioco da tavolo, come membro dell’associazione Ludimus; è inoltre co-fondatore e editor del blog Dudexpress.

Vi sono tempi d’attesa biologici che non si possono aggirare: i mesi di gestazione di una gravidanza, le fasi della vinificazione, le tappe della crescita fisica. Sono tutti processi che richiedono pazienza e cura.

La tendenza dell’essere umano alla semplificazione, volta a migliorare le proprie condizioni di vita, ha tentato, laddove possibile, di accorciare i tempi d’attesa “accorciabili”, mirando al controllo attivo di una risorsa determinante: il tempo. Dalla rivoluzione neolitica in poi, il controllo dei tempi della natura a proprio vantaggio ha orientato il comportamento produttivo dell’uomo, influenzandone, sul lungo termine, anche l’organizzazione sociale e lo sviluppo culturale. Certo, questo processo è stato a lungo rispettoso dei tempi della natura per ragioni intrinseche: l’uomo, in quanto esso stesso parte della natura, ha adottato strumenti della techne inizialmente “vicini” ai tempi della physis, ma è forse vero che questo equilibrio si è progressivamente spostato sull’asse della techne, allontanandosi significativamente dall’asse della physis, a partire dalla rivoluzione industriale, fino a sfociare in quella che Emanuele Severino ha definito “civiltà [globale] della techne”.1

Si può forse dire che nel Novecento la bussola di questo processo abbia addirittura invertito la sua polarità, rendendo non la qualità della vita comunitaria ma il profitto individuale il perno attorno a cui ruotare: in questo senso, la rivoluzione fordista non può certo essere assunta come modello di evento migliorativo delle condizioni di vita degli operai, nonostante la retorica paternalistica ad essa retrostante. E l’individualizzazione, da allora imperante, congiunta a un costante desiderio di saziare bisogni apparenti evitando inutili attese (i cosiddetti “tempi morti”), ha interessato pressoché ogni ambito di una modernità, non a caso, metaforicamente definita liquida.2 Anzi, si potrebbe sostenere che è stata proprio la capacità tecnica di ridurre i tempi di attesa a ridurre, di riflesso, la capacità naturale di “aspettare”, mentre è cresciuta esponenzialmente l’“aspettativa” riposta nei risultati, che più che al prodotto guarda al profitto.

Questa sostanziale riduzione dell’attesa da tempo naturale a tempo “interstiziale”, come lo ha definito il sociologo Giovanni Gasparini,3 è dunque una fenomenologia tutta moderna, che ritengo possa trovare nel gioco degli scacchi una peculiare vetrina della propria ontologia.

Negli ultimi cent’anni la comprensione di questo gioco, a tratti, ha conosciuto uno sviluppo esponenziale, paragonabile – si parva licet… – al fenomeno della crescita geometrica della popolazione mondiale nell’ultimo secolo. Gli scacchi sono un gioco millenario, modernizzato intorno all’epoca del Rinascimento, che si è trasformato nel tempo e ha visto sensibilmente decifrati molti dei propri segreti: a partire dal brillante scacchista statunitense Paul Morphy, passando per le competizioni dell’epoca della guerra fredda (quelle tra Bobby Fischer e Boris Spassky, o tra Anatolij Karpov e Garri Kasparov), fino ai giorni nostri (quelle tra Magnus Carlsen, Hikaru Nakamura, Ding Liren e molti altri), innumerevoli maestri hanno sviscerato e approfondito le dinamiche di questo che potremmo legittimamente definire anche uno sport.

Oggi, le ragioni della crescita esponenziale della comprensione degli scacchi, da cui è scaturito anche un approccio più frenetico e meno attendista al gioco stesso – le modalità blitz e soprattutto bullet ne sono un esempio –, vanno lette forse anche in relazione a un approccio più velocizzante alla vita, caratteristica sostanziale, peraltro, della società dei consumi.

Evidentemente non è stato sempre così.

Si dice che il Grande Maestro sovietico (dal 1992 ucraino) David I. Bronštejn un giorno attese per ben 45 minuti prima di compiere la prima mossa della propria partita, in contemplazione estatica – come poi dichiarò – delle infinite possibilità offerte dall’apertura su cui stava meditando.4 Questo aneddoto, tra le altre cose, ci dice che gli scacchi erano, un tempo, il gioco d’attesa per eccellenza. A volte un’attesa interminabile: il geniale Rowan Atkinson ha immortalato l’incapacità dell’osservatore esterno non professionista di comprendere l’intricato flusso dei ragionamenti che infittiscono la mente del giocatore professionista “a cui tocca” – o, come si dice in gergo, che ha il tratto – in un celebre sketch, in cui il suo indimenticabile Mr. Bean (indebitamente l’unico ruolo per il quale venga solitamente ricordato l’eclettico Atkinson) tende all’addormentamento guardando in TV una partita a scacchi, con un timido, cursorio istante di risveglio allorché uno dei due contendenti avvicina la mano ai pezzi sulla scacchiera, salvo poi ripiombare nella sonnolenza nel momento in cui il giocatore torna sui suoi passi rinunciando alla mossa.5

Nelle partite in presenza, l’attesa della mossa dell’avversario era un contesto fruttuoso, produttivo di ragionamenti utili; ma anche a distanza due sfidanti potevano godersi una partita per corrispondenza per mesi interi, trascorrendo il tempo tra una risposta e l’altra ragionando sulle pressoché infinite varianti di ogni posizione. Dunque, per richiamare un ossimoro caro a Nuccio Ordine, un momento apparentemente inutile, come appunto l’attesa della mossa avversaria, era elevato al momento di massima utilità e comprensione del gioco ai fini dello sviluppo strategico.6 L’attesa era perciò quello spazio in cui si realizzava la cerebrazione, ma in una postura dialogica, quasi cavalleresca, che trattava il gioco in sé come una competizione tra galantuomini, non come oggetto fine a se stesso.

Una procedura tutta peculiare del gioco degli scacchi, oggi non più particolarmente in voga, ma espressione di tale attitudine etica, era la mossa cosiddetta d’attesa. Un’attesa nell’attesa, se vogliamo, nella quale si sublimavano le caratteristiche forme di un agone sportivamente inteso, in cui la stessa cessione del “tratto” all’avversario esibiva l’attitudine elegantemente atletica del giocatore, pronto a cedere con disinvoltura la mossa. La mossa d’attesa, soprattutto nei finali, poteva poi assumere connotati più competitivi: costringere l’avversario a muovere poteva essere, e lo può ancora, un subdolo stratagemma per costringerlo a peggiorare la propria posizione (è il caso dello Zugzwang, ovvero lo “svantaggio della mossa”).

Ovviamente i “tempi moderni” hanno investito anche il gioco degli scacchi e la versione “cavalleresca” della mossa d’attesa ha esaurito la sua dignità al tavolo, dove lasciarsi sfuggire il tratto – a meno che non sia una decisione mirata – è considerato (e l’espressione, si noti bene, è divenuta tipica del gergo scacchistico) una “perdita di tempo”. E nonostante esista un campionario delle mosse d’attesa più brillanti,7 questo particolare tipo di mossa viene sempre più relegata nella communis opinio a una dimensione poco significativa, quando addirittura non vincente.

Il giocatore della novella degli scacchi di Stefan Zweig8anticipa, da questo punto di vista, un’impostazione tutta contemporanea del gioco degli scacchi, fatto appunto di professionisti enciclopedici, calcolatori spesso addestrati meccanicamente a riconoscere un’apertura e a reagirvi correttamente, piuttosto che di appassionati pensatori romantici. Certamente, assistendo alle reazioni emotivamente incontrollate di alcuni campioni contemporanei, tra sbuffi, pezzi scagliati con violenza e smorfie nevrotiche, possiamo forse equiparare quello che un tempo avremmo potuto definire sport cavalleresco piuttosto a un’attività professionale come un’altra.

Non suona poi così strano, allora, il fatto che ciò che un tempo poteva essere realizzato in tutta tranquillità, come una partita per corrispondenza, oggi, pur restando praticabile, abbia perso buona parte del suo fascino: non c’è più spazio per quell’incontro dialogico tra umanità diverse che i tempi di attesa naturalmente producevano. La stessa presenza dei potentissimi calcolatori ha cambiato radicalmente il gioco degli scacchi, forse addirittura agendo come concausa nella crescente fortuna della modalità blitz e bullet, con partite finanche da 1 minuto per giocatore, dove si ammortizzano i tempi morti addirittura preparando le mosse con un click di mouse. L’attesa negli scacchi, insomma, oggi ha parzialmente perso la sua funzione: il giocatore ha demandato alle macchine calcolatrici la risoluzione di alcuni “tempi morti”. Quell’elemento tutto umano, dunque, ma inteso nel senso più naturale del termine – cioè che avvicina l’uomo alla natura, ai suoi tempi e ai suoi ritmi –, proprio l’attesa, è stato scavalcato e smarrito, prosciugando quegli spazi intermedi, rendendoli appunto interstiziali, proprio quelli che producevano scambi fruttuosi di umanità. E non è forse un caso che i vuoti produttivi, lasciati a inaridirsi, siano oggi più dominio della macchina, che non dell’uomo.

Paradigma di un cambiamento sociologico più ampio, che pone la gravosa questione anche nel più degno laboratorio di umanità che ci rimane: la scuola. Quando anche a scuola smetteremo di aspettare e riporremo invece le nostre aspettative in operatori meccanizzati capaci di riempire “i tempi morti” del cervello dei nostri studenti, forse sarà il segnale che siamo pronti a rinunciare anche alle attese più naturali, come quelle biologiche.

Ci siamo già…?

NOTE

1. E. Severino, Téchne. Le radici della violenza, Milano, Rusconi, 1979.
2. Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002.
3. G. Gasparini, L’attesa: un tempo interstiziale?, Studi di Sociologia, Anno 30, Fasc. 1, gennaio-marzo 1992, pp. 23-45.
4. C. Pantaleoni, Il libro completo delle aperture, Bologna, Le due torri, 2023, p. 11.
5. Mr. Bean, E13, Goodnight Mr. Bean (Act 3: Sleeping Trouble).
6. N. Ordine, L’utilità dell’inutile. Manifesto, Milano, Bompiani, 2013.
7. Cfr. https://www.chess.com/article/view/greatest-chess-waiting-moves-by-grandmasters.
8. S. Zweig, La novella degli scacchi, Milano, Sperling & Kupfer, 1947.

Articolo precedenteEsistere è aspettare
Articolo successivoPazienza come tempo di libertà

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Ultimi articoli

Antonino Pennisi, L’ottava solitudine. Il cervello e il lato oscuro del linguaggio, Il Mulino, Bologna 2024

Ugo Morelli: Se c’è un’esperienza che ognuno pensa di poter definire abbastanza facilmente, quella è la solitudine. Ma è poi così vero...

Il blocco dello scrittore, ma non solo…

Ore 5.00 la sveglia suona come tutte le mattine dal lunedì al venerdì, non sbaglia un colpo, finché non glielo permetto io.

Ridotti al silenzio dalle nostre chiacchiere?

«La parola è un sintomo di affetto E il silenzio un altro» Emily Dickinson, Silenzi,UEF, 1990

Scrivere: rivoluzionario più che disubbidiente

La sala è la stessa e il protagonista è il medesimo che, nel frattempo, non ha perso né fama, né carisma. Eppure,...

Risposta alla domanda: “Quale il senso di parlare a questa umanità distratta, disgregata ed in crisi che non perde occasione di manifestarsi tale ogni...

Al di là di ogni pubblica confessione, che pure qui può leggersi in controluce, lo scrivere oggi non è più possibile. La...