Fuori strada

Autore

Aurora Martinelli
Aurora Martinelli, nata nel 1998, dopo gli studi classici ha conseguito una Laurea Triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Padova con una tesi dal titolo “La lunga liberazione. La questione della specificità femminile nelle esperienze post Olocausto” con la professoressa Enrica Asquer. Contenta, ma non abbastanza, ha conseguito un'altra laurea in Graphic Design presso la LABA di Rovereto con una tesi di progetto dal titolo "Sfumature. Interazione tra podcast e comunicazione visiva in un progetto di divulgazione storica" col prof. Matteo Carboni. Mossa dal desiderio di unire l'anima storica e quella grafica e lavorare nel campo della comunicazione culturale, attualmente si muove tra Trento, dove collabora con la Fondazione Trentina Alcide De Gasperi e con lo Studio di Davide Dorigatti, e Bologna, dove lavora per Un Altro Studio.

Pensieri sull’esodo a partire da A un cerbiatto somiglia il mio amore di David Grossman.

Si può arrivare nello stesso posto attraverso più strade, ma non è vero il contrario: ogni strada può finire solo in un unico posto. Orah sa che la scelta di suo figlio Ofer di restare a servire nell’esercito israeliano anche dopo la conclusione del suo periodo di prova li può portare solo verso un’unica, tragicamente prevedibile, destinazione. Una delle tappe di questo itinerario, quella che più teme, prevede che dei soldati si facciano carico di bussare alla sua porta in un momento qualsiasi della sua giornata – mentre si lava i denti, o magari mentre si spazzola i capelli o piega le lenzuola –, che lei apra loro e che loro, con sguardi imbarazzati nonostante abbiano provato e riprovato più volte il discorso (così se li immagina Orah), le annuncino che suo figlio, purtroppo, non c’è più. Pensieri la infestano come fantasmi una stanza abbandonata, e in prima battuta lei cerca di ri-ordinarli, uscendo quindi dalla straordinarietà della situazione e ricacciando le sue azioni dentro un’ordinarietà quotidiana. Cucina allo sfinimento, facendo sfrigolare nelle pentole i piatti preferiti di suo figlio, come se potesse tornare da un momento all’altro, come se dovesse prepararsi ad accogliere lui in carne ed ossa, e non la notizia della sua dissoluzione. 

«Alle sette e mezzo di sera era affaccendata in cucina in jeans e maglietta e, per non tradire lo stereotipo, con un grembiule a fiori da vera massaia, sudata ed entusiasta: una cuoca. Pentole e padelle fumavano sui fornelli, riccioli di vapore si innalzavano fino al soffitto addensandosi in nubi fragranti […] sul tavolo alle sue spalle troneggiavano ciotole coperte da una sottile pellicola trasparente con insalata di melanzane, di cavolo, o una semplice insalata mista di verdure, ricca e colorata […] E in un’altra ciotola c’era la sua versione del tabulé, che a Ofer piaceva da morire, o meglio, gli piaceva proprio tanto, si corresse subito […]. E se avesse preparato una bistecca come piaceva a Ofer, cotta nel vino rosso, nel caso lui venisse rimandato a casa già quella sera? […] Tornò alle pentole sul fuoco, mescolò, speziò abbondantemente – a Ofer piaceva il cibo piccante». 

Ma le basta accendere la radio per capire quanto sia precario l’equilibrio di una donna che si muove su un filo teso dentro la sua casa accogliente, ma sopra le macerie di un Paese in perenne stato di guerra. Con un perfetto aplomb, Orah «Rise […] e buttò l’intera pentola di riso con uvetta sultanina e pinoli nella pattumiera, la lavò accuratamente e la asciugò a lungo, con gesti carezzevoli. […] buttò in pattumiera le melanzane in salsa di pomodoro, strofinò la padella, la asciugò con cura». Si rende conto che il suo stratagemma non può reggere, e che anzi proprio quei gesti che si sforzava di compiere per esorcizzare la sua paura non sono altro che «un’inesorabile premessa a quei colpi (alla porta), persino un segnale d’inizio». 

Per impedire che accada ciò che lei più teme al mondo, ci vuole qualcosa di più potente.
È allora che Orah decide di abbracciare un’idea di esodo, di mettere in atto un piano per andare fuori (ἐξ) da quella strada (ὁδός) già segnata per lei e suo figlio, di inserire un sassolino dentro quell’ingranaggio che nessuno aveva mai osato scalfire, prima di lei.
Prepara due zaini, uno per sé e uno per suo figlio, e decide di partire per quella gita itinerante che avevano programmato per quei giorni, prima che lui decidesse di fermarsi a combattere. Partire significa per Orah qualcosa di ossimorico: è una fuga, un modo di sgusciare fuori da una situazione di insostenibile attesa, ma non solo. La sua assenza da casa nel momento in cui le dovrebbe venire recapitata la notizia creerebbe un cortocircuito nel sistema. 

«La mia protesta. Un nuovo senso di vigore le si propagava nel corpo stanco e le procurava una gradevole sensazione. Era una protesta squallida e patetica, lo sapeva, e di lì a un’ora o due sarebbe svanita non lasciandole in bocca alcun sapore. Ma cos’altro poteva fare? Rimanere ad aspettare senza muoversi che arrivassero a trafiggerla con la loro notizia? Io non rimango qui, ripeteva a se stessa cercando di farsi coraggio, non rimango ad aspettarli. Scoppiò in una risata acida, sorpresa. Ecco, era deciso, si sarebbe rifiutata, sarebbe stata il primo essere umano a rifiutarsi di ricevere quella notizia. […] Se si fosse allontanata da casa l’affare – ormai pensava in questi termini – sarebbe stato rimandato per un po’, almeno per qualche tempo. L’affare arbitrario, unilaterale, che lo Stato, l’esercito e la guerra avrebbero tentato di imporle entro non molto, forse già quella notte, e che stabiliva che lei, Orah, accettasse di ricevere la notizia della morte di suo figlio, contribuendo così a condurre il complesso e gravoso processo della sua scomparsa a una conclusione ordinata e concordata, e in un certo senso diventando, nel concedergli un’approvazione definitiva, complice del delitto. […] Se si fossero arresi, anche a una sola donna, l’intero sistema sarebbe crollato, e dove si sarebbe andati a finire se altre famiglie avessero adottato quel metodo? Se si fossero rifiutate di ricevere la notizia della morte dei loro cari dagli inviati dell’esercito?». 

L’esodo di Orah è un concreto e convinto tentativo di cambiare le cose, di andare fuori strada per provare a tracciarne un’altra, che la porti da un’altra parte. In questo tentativo, porta con sé un’altra persona, l’uomo che più di tutti ha segnato la sua vita e che inizialmente Orah deve letteralmente trascinare con sé, ma che a poco a poco si ammorbidisce, si distoglie dall’apatia con cui ha non-vissuto gli ultimi anni della sua vita. Si sintonizza sulla stessa frequenza di Orah grazie ai racconti di lei, convinta che parlargli di suo figlio sia l’unico modo per tenerlo in vita. L’esodo, da fuga via da qualcosa, si trasforma in una fuga dentro se stessa: dentro i ricordi e i dettagli della propria vita. 

Credo che sia tipico delle grandi opere letterarie contenere dei personaggi con cui ci si può immedesimare, coi quali si può gioire e soffrire, ma è proprio solo delle opere rare contenere dei personaggi per cui si prova anche un po’ di sana invidia. Difficile da reprimere è dunque l’invidia per questa protagonista: per la sua capacità di entrare sinceramente dentro sé stessa, per la sua audacia nell’uscire da una strada segnata, non solo immaginando ma anche disegnando una nuova traiettoria che spezzi quella già data. Forse avremmo bisogno, oggi, di un esodo di questo tipo?

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