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Togliere

Autore

Alessandra Limetti
Alessandra Limetti, Milanese ma bolzanina d’adozione, attrice e vocologa, con una laurea in Filosofia e diverse specializzazioni accademiche nell’ambito della voce e dei suoi utilizzi artistici e professionali, è docente di comunicazione e public speaking e svolge attività di consulenza e formazione aziendale nell’ambito delle risorse umane. Si è a lungo occupata di progetti culturali e teatrali come strumenti di intervento per le aree di disagio sociale e di teatro in carcere e, tutt’oggi, di progetti di didattica teatrale ed espressiva con soggetti diversamente abili, anche nell’ambito del teatro professionale. Speaker e vocal coach, lavora con centri di formazione artistici, studi di registrazione e radio ed è specializzata in vocal training per attori e professionisti della voce parlata, oltre che in didattica teatrale per le scuole superiori, anche in collaborazione con il Teatro Stabile di Bolzano. Critico teatrale iscritto all’ANCT (Associazione Nazionale critici di teatro), scrive per diverse pubblicazioni e per il quotidiano Alto Adige.

Ci sono cose nella nostra vita che non vorremmo mai perdere. Preziose, amate. E altre cui ci aggrappiamo insensatamente non si sa perché o, forse, per il timore di ritrovarci vuoti, manchevoli di quanto ci occorre per affrontare ciò che ci si potrebbe parare davanti all’improvviso. 

Ci sono situazioni che dovremmo cambiare, togliendo le pastoie che ci impediscono di proseguire più leggeri il nostro cammino. Situazioni che ci trattengono dal crescere, dal guardare oltre i panorami consueti e consunti che ci ostiniamo a tenere fissi dinanzi per timore degli orizzonti che ci si potrebbero aprire innanzi. 

La perdita è una delle nostre più grandi paure. Così, anziché togliere, accumuliamo. Di tutto. Accumuliamo pensieri che si riversano indigesti nelle nostre notti inquiete, che rodono maligni l’attenzione ai nostri giorni e ci impediscono di vedere con chiarezza. Accumuliamo preoccupazioni, stress, impegni, attività inutili di cui ci ingozziamo per non sentire i nostri vuoti, illudendoci che riempirsi di fuffa ci distragga abbastanza da non pensare al senso della nostra vita che ci sfugge. Senza renderci conto che non solo ciò che ingombra i nostri armadi, ma spesso anche molto di quanto abbiamo dentro, che trasciniamo con noi di giornata in giornata, in realtà non ci serve. Non ci è utile. Ci rallenta, ci blocca, ci inchioda. Ci “infescia”, per usare un’efficace espressione lombarda. 

Se avvertiamo una mancanza, invece di indagare di cosa realmente si tratti, da dove nasca quella nostra insoddisfazione e adoperarci per porvi rimedio, talvolta ci buttiamo a capofitto in qualcosa che serve solo a distrarci. A ingannarci. Senza renderci conto che è quella la vera sottrazione, la vera perdita: lo smarrimento, la perdita di noi stessi. Quando può darsi che ciò che davvero ci manca è spazio. Un tempo vuoto. In cui ritrovarsi interi. Liberi. 

Di quando in quando ne abbiamo intuizione, come un bussare discreto ai confini del nostro sentire; è lì che bisognerebbe mettersi maggiormente in ascolto, avere il coraggio di afferrare il momento e fermarci, occhi negli occhi con la nostra coscienza. Ritrovando il contatto con la parte più vera e profonda di noi. Interrogandola, per cercare di capire – o di intuire, appunto – se la stiamo soffocando o se le permettiamo di esistere, in noi, in ciò che facciamo e diciamo. Se la lasciamo risplendere nelle nostre relazioni o la camuffiamo sotto maschere via via più impenetrabili, via via più false. Se la stipiamo di menzogne alle quali finiamo noi stessi per credere. 

Togliere, allora, diventa un necessario esercizio di consapevolezza. Una cernita, una scrematura dell’inutile e del dannoso. Un “decluttering” mentale ed emotivo. Per rigenerarci. Per ripartire. Per ritrovare la nostra verticalità. 

Quando non ci prendiamo abbastanza tempo per fare il punto, praticando il distacco necessario dal mare ingombro nel quale siamo immersi, rischiamo di affogarci dentro, di esserne risucchiati. Diventa una spirale malefica da cui è difficile uscire e nella quale finiamo per trascinare con noi coloro che ci stanno intorno, e veder sparire tutto ciò che di buono, di sano compone la nostra esistenza. E precipitiamo in una serie infinita di rimpianti, di rimorsi, di rabbia, che si moltiplicano a folle velocità, alla quale non possiamo star dietro, e che non siamo più in grado di arrestare, travolti. 

Ci sono, invece, situazioni in cui il togliere diventa davvero un perdere. Un perdere da cui è difficile rialzarsi. Un perdere quasi tutto. È quando il togliere diventa scippo, inganno, violenza. Quando cessiamo di diventare soggetto, e subiamo. Quando ciò che ci appartiene, intimamente ci appartiene, ci viene rapinosamente sottratto contro la nostra volontà, lasciandoci piegati e impotenti. Sottratto da qualcun altro. Una sottrazione che ha come fine il depotenziare, lo sminuire, l’annientare. Che si fa ferita, che diventa squarcio ingombrante, che diventa arma. Abuso. A cui fa eco, dall’altra parte, un altro tipo di rimozione: quella del dolore, che ci illudiamo di eliminare tenendolo lontano, non guardandolo, ignorandone i morsi. Crediamo di averlo superato, o che non esista, perché non lo vediamo. Non lo vogliamo vedere. Uno strappo nel quale rischiamo di lasciare indietro pezzi di noi. Dal quale emergiamo depauperati e, se non decidiamo consapevolmente di mettervi mano, sconfitti. 

In A perdere. Un gioco senza amore uscito di recente per la casa editrice Athesia, ho cercato di affrontare il tema della perdita e della sottrazione da una prospettiva un po’ particolare, ma che spero abbia la forza di rifrangersi, per somiglianza, nell’universale: quella del gioco d’azzardo patologico e degli effetti a cascata che una così subdola dipendenza ha non solo sul giocatore, ma anche sui suoi famigliari, che si ritrovano, loro malgrado, nel ruolo di vittime collaterali. Il gioco d’azzardo, oltre a essere un gravissimo problema sociale, è una potentissima metafora di quanto sopra. L’azzardo toglie, sottrae, sequestra. È una dipendenza che tutto smembra: raziocinio, finanze, stabilità, credibilità, legami. Dignità: del giocatore e di coloro che dal giocatore vengono imprigionati da un castello di menzogne, sempre più complesse, sempre più credibili. Sempre più potenzialmente letali. La narrazione – perché di narrazione, di storia, si tratta – prende le mosse da esperienze vere di mogli e compagne di giocatori d’azzardo patologici, che ho raccolto e cucito insieme per raccontare, anche emotivamente, il prima e il dopo della scoperta della dipendenza da parte del proprio partner. Un tempo lunghissimo, fatto di sottrazione e inganni. Una famiglia devastata dal subdolo tradimento da parte di chi l’avrebbe dovuta amare e proteggere. Nutrire, e non farla precipitare nel baratro, togliendole – appunto – tutto, comprese le cose più preziose: l’amore, il rispetto, la fiducia. È però anche la storia di una possibile rinascita, di una possibile speranza. Della consapevolezza che rialzarsi, medicarsi, ritornare interi è possibile, indipendentemente dai tagli che la vita ci ha inferto. Un esercizio di consapevolezza che può essere lungo, faticoso e non privo di sofferenza: ma una sofferenza forse capace di recare in sé la propria cura. È qui che il togliere può trasmutarsi in un liberare, un liberarsi.

Dobbiamo imparare ad accorgerci di dove siamo, e a togliere potere a ciò che promette di sottrarci vita. Situazioni, agiti, talvolta anche relazioni. Togliere come si toglie una spina dalla carne viva della mano, una punta di lancia da un petto trafitto. Resta lo strappo, resta la lacerazione. Ma è l’unica via per non perdere tutto, per non farci dissanguare, prosciugare. Per rialzare la testa e tornare a guardare in faccia la nostra dignità. Per permettere, col tempo, alle nostre ferite di rimarginarsi: l’unica strada verso la guarigione. 

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